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Quante parole su Torino, e i fascisti intanto si prendono il Salone del libro

7 Maggio 2019

Il tema, in questi giorni, è se sia giusto che il Salone del Libro ospiti una casa editrice d’ispirazione fascista; e in giro s’avverte tutta una eccitazione volterriana e ben educata, tanto che c’è persino chi si scandalizza che si possa avere qualche dubbio sull’opportunità di quella presenza e, anzi, in qualche caso si passa senz’altro al rimprovero verso chi va rinunciando a Torino. E di questo, insomma, variamente si discute, con esiti del tipo: vengo, non vengo, mi si nota di più se.

Chi organizza il Salone più di tanto non s’espone, mettendosi al riparo dietro frammenti della Costituzione della quale si dichiara ambasciatore con ampia citazione dell’articolo 21 e rinvio alla magistratura per l’accertamento di eventuali reati; e forse dimentica che la Costituzione è dichiaratamente antifascista, incluso quindi l’articolo 21 ma, insomma, non è che si possa chieder troppo, di questi tempi. Per il resto, a quanto si capisce, chi paga ha diritto al posto in fiera. E tanto dovrebbe bastare, se si intende il Salone come una manifestazione commerciale – una fiera, appunto. La cosa convince assai meno se invece si ritiene che quello debba essere anche un luogo di cultura e, dunque, di scelte.

L’editore Altaforte, intanto, le scelte le ha fatte e fa il proprio mestiere – va detto chiaramente – con pieno diritto di farlo, sino a che sta nel confine della legge. Nel suo catalogo compaiono titoli che esprimono compiutamente la posizione politica rappresentata dall’editore stesso. Sfogliandolo ci vuol poco a farsene una idea. La sinossi del «Diario di un squadrista toscano», ad esempio, spiega che «lo squadrismo fu scuola di pensiero e di azione contro chi fugge la lotta e trova alibi al proprio sfaldamento esistenziale». Le idee son quelle che sono ma almeno son chiare e inequivocabili, esprimono una posizione.

Al contrario, altrove molti sono apparsi spiazzati, incerti, e s’è finito più che altro per dare spazio alla mozione degli affetti democratici, forse un po’ vacua quando appare così disanimata e indivisiva, se invece ci sarebbe da distinguere tra fascisti e non; e così rischia di diventare persino noiosa. Infine, inquietante come sempre, è arrivato anche il momento del riflesso d’ordine e della responsabilità necessaria, per cui ecco gli inviti alla censura e ai divieti o, in alternativa, che si vada comunque tutti a Torino, come se neppure un segno di rivolta, uno schizzo almeno d’anarchia, fosse più ammissibile. Chi si sottrae rischia l’accusa di disfattismo.

Ma, alla fine, la sensazione è che stiano correndo tante parole, belle parole, bellissime e molto condivisibili parole ma innocue, ché nei fatti operano tutte insieme come una dichiarazione di estraneità – forse persino di neutralità – rispetto alle scelte alle quali, in quanto intellettuali, si sarebbe chiamati, soprattutto se si è alla guida di una manifestazione come il Salone di Torino. E questa neutralità è – o almeno dovrebbe essere – un problema culturale. E invece no, niente da fare.

Entro il confine definito dall’ordine costituzionale ciascuno è evidentemente libero di organizzare saloni del libro e di accettare la partecipazione di chiunque egli ritenga compatibile con quella stessa manifestazione, inclusi gli editori di orientamento neofascista secondo i quali «Mussolini è stato sicuramente il miglior statista italiano». Ma almeno si avesse il coraggio di rivendicarla pienamente questa scelta e di assumersene la responsabilità intellettuale e politica; almeno ci fosse stato il coraggio di farne una questione culturale, una vera occasione di dibattito, visti i tempi; ma no, neppure questo: quell’editore ha pagato l’iscrizione, s’è detto, e quindi ci sarà anche lui. Fine. La presenza dei neofascisti è ridotta a una mera questione contabile. Un mezzo capolavoro che ricorda certe democristianerie d’un paio di repubbliche fa.

Peraltro, quelli che saranno esposti a Torino son libri, e gli intellettuali i libri non dovrebbero temerli, neppure se esposti in fiera; semmai dovrebbero allarmarsi per ciò che attorno a quei libri sta crescendo e per come tutto ciò chiama in causa tutti, incluso il ruolo degli intellettuali nella società di questi tempi: questo, soprattutto, meriterebbe una bella discussione – ma una discussione franca, come di sarebbe in gergo diplomatico, e depurata d’ogni retorica.

Si capisce che, allora, è persino inutile adesso mettersi a discutere su cosa sia meglio fare, se andare o meno a Torino, ed è inutile anche sfiancarsi in un dibattito sulla democrazia che, per come viene squadernata la questione, è nulla più di un esercizio di stile poiché tutto quello che sta accadendo è la conseguenza di un problema che viene prima d’ogni cosa tra quelle sulle quali adesso si sta discutendo; il problema sta insomma nella responsabilità di chi dovrebbe – per mestiere e per la passione d’ogni intellettuale, se ancora la fiammella da quelle parti è accesa – operare le scelte; e poi oramai il danno è fatto. In queste condizioni si potrà certamente rivendicare anche il lavoro sul programma del Salone e persino una qualche forma di orientamento politico che quel programma dovrebbe esprimere, come qualcuno ha sostenuto. Ma a che serve, oramai? Boh.

Poi, certo, si può senz’altro annunciare ai giornali l’intenzione di celebrare Primo Levi a dimostrazione delle proprie intenzioni, ma Primo Levi lo si finirà per celebrare con lì accanto un editore il quale dichiara che «Mussolini è stato sicuramente il miglior statista italiano» e che «l’antifascismo è il vero male di questo Paese», senza che si sia stati in grado fino ad ora di spiegare davvero – se non opponendo ragioni burocratiche – come si sia arrivati a tanto. Ed è proprio in ciò  – nella mancanza d’argomenti, non in eventuali divieti che non sono mai auspicabili – che sta il pasticcio.

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