Lavoro

Quando il lavoro c’è, ma non ti vogliono

21 Maggio 2019

Stanco, abbattuto, sconfitto. Dietro uno schermo, mi ritrovo per l’ennesima volta a riempire una ad una le caselle con le informazioni sul mio percorso: dove mi sono laureato, dove ho lavorato, cosa ho fatto, cosa ho imparato. Dati che ripeto all’ossessione nella ormai asfissiante ricerca del lavoro.

Dicevano che bisogna andare oltre l’apatica candidatura attraverso i sistemi informatici. Un ministro ha anche detto che il lavoro si trova con le partite di calcetto. E l’ho fatto. Mi sono attivato, ho creato una rete di conoscenze sul territorio da fare invidia, che spazia nell’età, nei temi e nei luoghi. Sono diventato un attivista, sono impegnato in diverse organizzazioni di advocacy ed ho messo in campo le mie conoscenze, trasformandole in abilità ed esperienza. Eppure nulla di tutto ciò sembra aiutare nella ricerca del lavoro. Nessuno ha speso una parola in più per me. Nessuno si è mosso per farmi ottenere un lavoro retribuito, ma tutti e tutte sono sempre stati bravi a darmi dell’altro lavoro, pagato rigorosamente con un’incoraggiante pacca sulla spalla.

Non solo. Non sono stato affatto schizzinoso, non ho rifiutato nessuna possibilità presentatasi. Mi sono spaccato la schiena per la pratica legale, ho fatto il dogsitter, ho fatto il postino per Poste Italiane. I contatti creati durante quei mesi di lavoro, li ho fatti fruttare: sono andato azienda per azienda a consegnare il mio curriculum, dopo aver loro recapitato la posta per due mesi.

Ma ancora: ho imparato le lingue, oltre l’italiano parlo fluentemente l’inglese, ho vissuto in Germania e ho un tedesco arrugginito ma recuperabile, sto imparando il francese e passerò un periodo in Francia per consolidarlo, lo spagnolo lo comprendo molto agilmente. Ho vissuto all’estero, ho viaggiato all’estero, ho creato contatti all’estero.

Non ho mai fermato la mia formazione, nonostante tutto: corsi di formazione, summer school, incontri e convegni, workshop, corsi di preparazione all’esame di avvocato, diploma in cooperazione presso un prestigioso istituto di Milano. Vivo con il timore di trovarmi nella condizione di essere un NEET (young people Not engaged in Education, Employment nor Training) e sto quindi cercando sempre di aggiungere un po’ di conoscenze nel mio bagaglio. Questa pressione performativa che ci chiede di essere di successo, di essere performanti, grava come un macigno sulla mia esistenza.

Non mi sono mica fermato qui: mi sono iscritto ad ogni concorso possibile dello Stato italiano. I tempi per la pubblicazione delle date sono biblici, la preparazione svilente e avvelenante: i soldi ed il tempo da impiegare sono notevoli e non è mica privilegio di tutt* poterselo permettere. E questo è un capitolo che molti italiani conoscono bene.

Mi sono iscritto ad un’infinità di siti di aziende che richiedono candidature online, mi sono iscritto ai siti di tutti gli enti internazionali, dall’Osce all’Onu all’UE. Hanno tutti i miei dati, dalle informazioni personali a come e dove ho studiato a cosa ho imparato sui luoghi di lavoro. Evidentemente queste multinazionali non sono abbastanza intelligenti da scambiarseli. Non solo, ma ci sono perfino aziende che dopo un’anno dall’invio della mia candidatura, mi hanno costretto a ricreare il profilo personale, andato perduto nelle varie riorganizzazioni del sito. Per non parlare di portali istituzionali che, sistematicamente, vengono riaggiornati, perdendo intere banche dati. Un calvario.

Mi trovo ormai bloccato da anni a compilare dannati form di candidatura, sempre con le stesse informazioni. Mi sono candidato per posizioni a rischio, posizioni con tempi brevi, posizioni con immediata disponibilità anche all’estero: da Londra a Bruxelles a Parigi, Vienna, Ginevra, Milano Roma e Torino ma anche in Ucraina, Moldavia, Georgia, Kosovo.

Apriamo una breve parentesi sulle organizzazioni internazionali: non sembra che a loro interessino i sacrifici ai quali una persona si espone con le proprie candidature, rendendosi disponibile a vivere lontano da casa. Sulla base della mia esperienza e delle mie conoscenze, posso dirvi, poi, con certezza che le organizzazioni internazionali non fanno di nulla per abbattere il soffitto di cristallo tra classi, tra persone con e persone senza i mezzi socio-economici.
Vengono infatti sistematicamente preferite persone che hanno già ricoperto posizioni presso istituzioni internazionali: la ragazza con il tirocinio in Parlamento Europeo, il ragazzo che ha fatto lo stage universitario presso l’ambasciata italiana in Cina,  l’altra che ha lavorato per tre anni in missioni di cooperazioni internazionali. Tutte queste persone vengono preferite a te, povero neolaureato di un’università pubblica qualunque, in una gara per una posizione di TIROCINIO! Per una cosidetta entry position, cioè uno di quei percorsi creati proprio per fare entrare nuove leve all’interno delle amministrazioni. Discriminazione costante e su larga scala.

Ed è allora che ti sorgono i dubbi. Noi ragazzi e ragazze con un profilo che non sbrilluccica, senza diamanti né perle come master in istituti privati di pregio, non siamo degni di nota. Noi cittadini europei del sud, noi italiani del sud, noi italiani gay, noi italiani atei, noi italiani politicamente attivi, noi italiani contro le mafie ed i fascismi, non esistiamo. Noi passiamo inosservati nei loro database, nelle loro cartelle con i candidati. Non piacciamo.

Dopo aver fatto tanti esami di coscienza e tanta, ma tanta autocritica, è questo che si inizia a prendere in considerazione. Che forse non è tanto la mia esperienza che manca. Forse non sono io che sono da meno, ma è ciò che sono che evidentemente non è accettato dal mondo del lavoro, dal mondo dove il corrispettivo economico viene riconosciuto solo a chi sa stare al tuo posto, a chi non dà troppo fastidio.
Proprio perché sono onesto, proprio perché voglio sin da subito dichiarare ciò che sono in una candidatura, proprio perché non voglio che ci siano segreti tra me ed il mio datore di lavoro, invece, faccio paura. Il mio cv in mano loro scotta. Il numero di candidature inviate mi fa pensare che l’unica risposta possa essere questa. It’s not you, it’s them.

Ho l’ardire di poter dire tanto solo perché ad un certo punto ho capito che non potevo dare la colpa solo a me. Ho capito che mi serviva un meccanismo di difesa dalle mie autocritiche. Dovevo dare credito ed ascolto a tutte quelle persone che si sono sempre complimentate per quante cose faccio e per come le faccio bene. Ho dovuto iniziare a riconoscere il mio valore!

Da anni organizzo eventi culturali di alto livello, eventi di fundraising, riesco a gestire gruppi di persone variegati, a mettere insieme le divergenze, ad unire l’impossibile, a sopportare orari di lavoro stremanti, a lavorare nonostante le violenze e i soprusi dei superiori. Riesco a tradurre testi complicati, testi in lingue che conosco poco e più volte mi sono improvvisato interprete, con ottimi risultati. Sono un bravo venditore, ho delle idee di responsabilità sociale d’azienda che sono più che innovative e rivoluzionerebbero l’imbellettato mondo del greenpinkwhite-washing. Ho una volontà di cambiare il mondo che vedo solo in poche altre persone. Ci sono così tanti posti e luoghi dove so che potrei fare la differenza, migliorando pessime organizzazione di aziende o associazioni. Migliorare i rapporti umani all’interno di certe organizzazioni. Sono una persona d’azione, ma so anche riflettere sugli errori e riconoscere che la partecipazione di tutti e tutte spesso è l’unica soluzione. Sono una persona che sa chiedere consiglio, ascoltare. Sono un fottuto robot con l’autoapprendimento, ad ogni errore ne analizzo ogni aspetto durante l’esecuzione e miglioro tantissimo in poco tempo. Eppure sembra che nessuno voglia un campione come me. Non sembra che un campione come me riesca in questa sfida, il terribile processo di ricerca lavoro, una competizione in un mondo saturo. Sembra che il campione abbia fallito, oppure che il campione debba cambiare pianeta, perché è un alieno in questa gabbia di pazzi.

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