Costume
Quale conflitto?
Non è una novità che a parlare in nome dei poveri siano sempre stati i ricchi.
Salvo qualche sporadica eccezione il tribuno della plebe non ha mai fatto parte della plebe. Di sicuro non per educazione né per nascita. Al povero s’addice il parossismo di rabbia, la ribellione spontanea, il linciaggio, l’esplosione di violenza quasi sempre contro il bersaglio sbagliato ecc. non certo l’argomentazione o la teorizzazione che, semmai sarà poi il benestante, generosamente, ad allegare agli atti.
E c’è, ovviamente, una ragione: sono sempre stati i benestanti a “prendersi” la parola perché sono sempre stati solo loro a potersela permettere.
Anche oggi è così.
Ma sarebbe sbagliato concluderne che non è cambiato nulla.
Infatti, mentre in passato poteva anche darsi il caso – e talvolta si dava – di ricchi non ipocriti che effettivamente parlavano “per” i poveri, oggi il ricco, anche se parla “del” povero lo fa solo “per” se stesso.
Il povero è diventato un ornamento della chiacchiera politica. Un fronzolo verbale, una figura retorica che si presenta sotto due specie.
La prima è quella dell’ex-povero. Il tizio che, dopo un’infanzia indigente, un’adolescenza disastrata e una giovinezza disagiata perviene ad una maturità benestante grazie al duro lavoro e a meriti conclamati.
La seconda e quella del protagonista, o della comparsa, di una toccante fiction planetaria di cui si attende la puntata successiva (che farà? Morirà di stenti? Si sposerà? Emigrerà? Si farà strada? Si darà al crimine?) e dopo averla vista si spegne il televisore e si va a nanna.
La povertà, come sfruttamento e oppressione, prodotto ineliminabile di un sistema economico che necessariamente la prevede perché prevede la ricchezza di chi la sfrutta è scomparsa sia dal discorso politico che dall’immaginario collettivo.
Non esiste più.
Neppure nelle parole di quei benestanti che filantropicamente, ancora, parlano “dei poveri” ma certamente non più, e in nessun caso, “per” loro.
In questo modo la povertà non può più essere rilevata – e difatti non lo è – come problema endemico e conseguenza ineliminabile del nostro sistema globale ma semmai fraintesa in termini di pura contingenza locale, come vaga “distorsione” di quel sistema che, con un poco di buona volontà, si può “correggere” (un pochino…) senza modificare nulla nella sostanza; lasciando che i poveri rimangano poveri (magari qualcuno, forse e finché si può, un po’ meno di un altro) e i ricchi rimangano ricchi (qualcuno più di qualche altro).
Accade così che in un mondo in cui, se si potesse ancora parlare in nome dei poveri, non si dovrebbe parlare d’altro che della banalità del male quotidiano che li vuole poveri si parli di tutt’altro.
Per adesso, ad esempio, abbiamo un argomento succulento: nientemeno che una guerra non troppo lontano da qui.
La geopolitica, presso quei ricchi che, soli, hanno diritto alla parola, impazza.
Avranno ragione i milionari che stanno con Putin o quelli che stanno con Zelensky?
Avrà ragione l’Occidente dei miliardari e delle banche oppure la Russia dei plutocrati e degli oligarchi?
Io, ormai lo si sarà capito, sono un uomo rozzo.
Non so niente di geopolitica e quando mi parlano di Kiev la prima cosa che mi viene in mente è il finale dei Quadri di un’esposizione di Mussorgsky.
Per cui se fossi un proletario ucraino oppure un proletario russo mi farei solo una domanda: cosa cambia, per me, se il mio padrone è Zelinsky o Putin? Se verrò sfruttato da un plutocrate russo o da un miliardario ucraino, un banchiere inglese o un magnate americano?
E se la risposta è quella che non può non essere – e cioè che comunque vadano le cose io rimarrò quello che sono, un povero e uno sfruttato – allora lascerei che se la prendano nel culo tutti gli stendardi nazionali dell’universo mondo, che tutte le patrie vadano a farsi fottere.
E che i ricchi continuino pure a parlare di geopolitica, visto che hanno la parola (a me, generosamente, ne hanno lasciato solo il “diritto”) oppure di ciò che vogliono…ma, perdio, non in mio nome.
Non in mio nome.
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