Media

Privacy, odio e social networks

19 Marzo 2015

Dei rischi del Far Web è stato scritto, e molto bene, in questo articolo, con le praterie sconfinate della rete dove legioni di trolls impuniti lasciano i loro commenti protetti dall’anonimato, così che la scintilla dell’odio razziale e dell’antisemitismo più becero non trovano ostacoli e deflagrano in incendi difficili da domare. Il pendolo della libertà digitale oscilla costantemente tra il bisogno di sicurezza, da un lato, e il continuo e quasi litanico riferimento al Primo Emendamento della Costituzione Americana, quello in cui invece si difende la libertà di parola e di espressione.

Altre e ben più qualificate persone si sono espresse più volte su questo tema complesso e trasversale e rimando a loro per un approfondimento più sistematico. In questo pezzo, seguendo proprio l’oscillazione del pendolo, vorrei concentrarmi sulle opportunità e le prospettive che ci si aprono davanti, di fatto incerte e imprevedibili, ma gravide di radicali trasformazioni del concetto stesso di cittadinanza.

È davvero possibile dire tutto in rete?

Jeffrey Rosen, un giurista americano considerato tra i massimi esperti in tema di hate speech, sostiene che i grandi social networks dovrebbero sempre ispirarsi alla libertà di parola, richiamandosi appunto al Primo Emendamento della Costituzione che lo stabilisce.  Il tema è stato oggetto in questi giorni di dibattito al SXSW di Austin, in Texas, ed è caldissimo in un periodo attraversato dalla disruption della digitalizzazione, da una parte, e dalla minaccia alla sicurezza globale dall’altra.

Una deroga alla salvaguardia della libertà deve essere prevista nel caso in cui, con un comportamento ispirato da hate speech, si finisca col generare un problema di ordine pubblico. Il fatto è che il confine è molto labile tra difesa dei diritti e censura: le Nazioni Unite hanno approvato un Codice di condotta di sicurezza informatica (International Code of Conduct for Information Security) presentato da Cina, Russia, Tajikistan e Uzbekistan nel 2012. Questo codice stabilisce che i quasi 200 paesi membri hanno il diritto di difendere le proprie infrastrutture informatiche da attacchi esterni, sabotaggi, ovviamente rispettando il diritto all’informazione. Un riferimento controverso è quello che concerne la necessità di limitare forme di estremismo e, non a caso, la reazione dei colossi del web è stata di forti critiche a tale testo, in virtù del diritto ad autoregolarsi della rete.

Come arginare il rischio di un’amplificazione digitale del razzismo senza degenerare in un governo dittatoriale e in un controllo anti-democratico del flusso di informazioni?

Per partire da un banale riferimento al buon senso, un bell’articolo di Vittorio Zambardino su IlNapolista pone la domanda: qual è la policy, in questo caso di un blog dedicato prevalentemente al mondo del calcio, relativa alla gestione e moderazione dei commenti? Senza un filtro e senza un intervento, all’insegna della totale libertà, ogni discussione finisce infatti frantumata dal succedersi di sguaiatezze e offese volgari, spesso appunto nascoste dietro profili fake e senza identità.

E scrive Vittorio, proponendo invece una linea precisa: “Ci si esprime come si deve e come dice il padrone di casa – se vado in una Chiesa, io, non credente, non è che mi metto a bestemmiare. Per un elementare rispetto, ma anche perché, se lo faccio, il prete ha tutto il diritto di buttarmi fuori. È censura? Sì, e tanti saluti.

Come è possibile, dunque, regolare la democrazia liquida del web? Un’opzione, per l’appunto, è quella seguita dal governo cinese. E si configura come una censura a tutti gli effetti dotata, per altro, di un’architettura poderosa.

Il controllo dei post sui social media operato dal governo cinese agisce a due livelli:

  • Con il primo, un esercito di decine di migliaia di persone stipendiate dal governo legge laboriosamente i post individuali pubblicati sul web e decide in merito a quali far passare e quali no
  • Con il secondo, queste stesse persone hanno anche accesso ai post che vengono automaticamente e preventivamente bloccati dai filtri basati sulle keywords, decidendo anche in quel caso cosa eliminare e cosa, invece, pubblicare in rete

Il risultato finale di questa commistione algoritmo-classificazione umana è una macchina perfetta, in cui il governo consente ad un tempo di criticare anche i leader più importanti del partito, ma opera una censura preventiva nei confronti di tutti quei contenuti che possono essere associati a campagne massicce o a manifestazioni in piazza. Il governo utilizza, inoltre, le critiche postate dai cittadini cinesi sul web come base informativa (inestimabile, trattandosi di centinaia di milioni di persone) per decidere se e quale burocrate rimuovere dal suo ruolo istituzionale.

Un ricercatore di Harvard, Gary King, ha pubblicato e continua a pubblicare articoli scientifici in cui mostra i risultati delle sue analisi empiriche proprio su questa ingegneria del controllo sociale.

Se, da un lato, il pendolo oscilla verso lo Stato Totale, dal lato qualcuno paventa il rischio, invece, dell’Azienda Unica, come nella parodia distopica di Dave Eggers, da poco tradotta in italiano, Il Cerchio.

È davvero un futuro orwelliano quello che ci aspetta, con l’iper-connessione che si traduce nella retorica della trasparenza assoluta e nel motto Secrets are lies, Sharing is caring e Privacy is theft?

I grandi giganti del web, con i numeri da capogiro che contraddistinguono queste immense reti sociali (Facebook conta 1.3 miliardi di utenti attivi, mentre Twitter ne fa 289 milioni) sono continuamente oggetto di pressioni proprio con riferimento alla policy di moderazione dei contenuti postati.

Twitter, in realtà, sembra la realtà industriale più in crisi. Per diretta ammissione del suo Ceo, Dick Costolo, fino ad adesso il colosso dei cinguettii non si è praticamente curato di ciò che viene postato e retwittato, senza alcuna regolazione dell’hate speech. Nell’occhio del ciclone per un processo che potrebbe fare giurisprudenza, ora la compagnia applica uno strano criterio geografico nel rimuovere contenuti che vengono segnalati come offensivi o razzisti. Un gruppo di profili associati a neonazisti in Sassonia è stato segnalato e bannato, ma solo localmente. Sul sito in cui Twitter mostra le richieste di rimozione e il risultato delle stesse, paese per paese e con rapporti periodicamente aggiornati, appare chiaro come ci sia un forte squilibrio tra il numero delle richieste e quelle effettivamente accolte. A livello mondiale, solo il 13% delle domande viene soddisfatto, almeno secondo i dati di dicembre 2014.

Il gigante di Menlo Park, invece, appare più maturo per quanto riguarda la regolazione e il monitoraggio dell’hate speech: Mark Zuckerberg sta sicuramente investendo molto rispetto a policy chiare che stabiliscano cosa può essere postato sul social network.

Anche in questo caso, curiosamente, opera una sorta di commistione tra algoritmi computazionali e classificazione umana, con i Facebook deciders che, in ultima analisi, decidono quali profili rimuovere e quali, invece, lasciare sul web. La differenza non banale è che il processo avviene a fin di bene, con tutti i rischi consapevoli insiti nell’uso di un’espressione tanto delicata.

Il risultato è lungi dall’essere ottimale, come mostrano diversi casi anche recenti che hanno riguardato l’Italia. La censura implica tuttavia una scelta e, inevitabilmente, una responsabilità verso una rete sociale di 1,3 miliardi di persone che cresce continuamente nel tempo.

Il tema è caldissimo e necessita di una regolamentazione o, quanto meno, di una strada precisa. È proprio dell’altro giorno la comunicazione di un’ulteriore modifica delle policy di Facebook con riguardo alla pubblicazione di foto di nudo e di post legati al terrorismo sul social network.

Tutto ciò porterà al rischio orwelliano di un controllo orizzontale e pervasivo? La datizzazione delle nostre esistenze si tradurrà infine nella limitazione del nostro spazio di confidenza, con gli iperconnessi da una parte e gli sconnessionisti alla Mercer dall’altra?

Calma e gesso.

Il bello della democrazia è che i casi come quelli di Snowden, che rivelano ovviamente la perversione dell’occhio dell’NSA e l’ingerenza dei governi nelle nostre vite, gettano il seme della responsabilizzazione e della consapevolezza nei cittadini. Un rapporto del PEW Research Center appena pubblicato mostra dei dati incoraggianti. Su un campione di circa 500 adulti maggiorenni e residenti negli Stati Uniti, 9 su 10 si dichiarano consapevoli dei programmi di controllo delle informazioni operati dal governo. E una buona parte di essi mostra di avere cambiato abitudini e stili di comunicazione sul web, con un’attenzione particolare alla sicurezza dei propri dati e alle impostazioni di privacy.

Il merito di smascherare il re nudo è che, in una società che ha il diritto di dialogare liberamente, ognuno, poi, butta un occhio al proprio guardaroba e vede cosa cambiare. E i colossi del web non possono che adeguarsi a questo nuovo contesto in cui tutelare la privacy è diventato una fonte di vantaggio competitivo, come dettomi da Fabio Chiusi nell’intervista che verrà pubblicata in un mio prossimo libro; un “habeas data” dal futuro incerto, sì, ma anche foriero di una connessione più sicura. I sistemi di crittografia sempre più inespugnabili (in teoria, a detta di Tim Cook alla presentazione dell’iPhone6, anche dall’azienda stessa) mostrano, e ci pare rassicurante, una risposta, seppur di mercato, a un bisogno crescente di protezione delle informazioni.

Nostro compito, ma è appunto una sfida responsabilizzante, è semmai quello di continuare ad esercitare pressione e vigilanza attiva, per non cadere nel rischio della normalizzazione omologata dei comportamenti sul web, quella versione un po’ addormentata di Do no evil che già Tocqueville paventava nella sua Democrazia in America, quando descriveva un nuovo tipo di “servitù che ricopre la superficie della società con una rete di piccole, complicate regole; attraverso cui le menti più originali e i caratteri più vitali non possono penetrare. Non tirannizza ma comprime, snerva e stupisce un popolo, fino a quando ogni nazione non è ridotta a niente altro che a un gregge di animali timidi e industriosi di cui il governo è il pastore”.

La moda temeraria dell’algoritmo che migliora il mondo non deve prospettarci un futuro dominato dal Leader del Dormiglione di Woody Allen, ma far sperare piuttosto che ci sarà sempre qualcuno in grado di prendere in ostaggio un naso e salvare la libertà di tutti anche con una bella e libera risata.

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