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algoritmo perdonaci

4 Aprile 2018

Breve premessa. Nel romanzo Il perturbante ho immaginato un protagonista, il data analyst Lorenzo Cassani, che, dall’alto della sua (supposta) superiore conoscenza sul reale funzionamento di social e algoritmi, si permette di deridere gli altri, gli ingenui, quelli che ancora si sorprendono degli “scandali” tipo Cambridge Analyitica. Quanto segue è il prodotto delle ultime presentazioni del libro in cui spesso mi è capitato di tornare sul tema della consapevolezza e, in parte a questo connesso, su quello della  colpevolezza/innocenza dell’algoritmo e dei suoi utenti.

Non è così facile rinunciare alla dose

I millenials (e non solo) si drogano meno delle generazioni precedenti perché, diciamocelo, sai la sbatta di andarsi a cercare lo spacciatore al parco quando hai in tasca un eccezionale erogatore di dopamina chiamato smartphone? Volete cancellarvi da Facebook? Ottimo, ma sceglietevi fin da subito un vizio sostitutivo, tipo le caramelle per gli ex tabagisti, o iscrivetevi preventivamente a un corso di yoga o di arrampicata. Il dato di base resta comunque che sui social, accanto a importanti livelli di ansia e depressione, ci si becca tutti la nostra bella e facile iniezione di benessere quotidiano.

L’algoritmo ci vuole bene

Immaginate se il vostro wall fosse non la bolla rassicurante che vi siete costruiti negli anni, ma una sorta di blob pieno zeppo di notizie e temi di cui non ve ne può fregare di meno, tipo per me l’ultimo modello di BMW o le prime lallazioni del giovane Leone. Immaginate che, entrando in un’agenzia di viaggi, vi si dica di stare zitti e il tour operator pretendesse di indovinare solo guardandovi negli occhi se siete più tipo da weekend culturale a Parigi o da trekking estremo sulle Ande. Immaginate se al ristorante il maitre non si limitasse a consigliarvi dei piatti, ma li decidesse lui per voi.

Ma, si dice, quei cattivoni di Facebook poi vendono i nostri dati ad altre applicazioni. Bene. Immaginate che Tinder non potesse accedere alle vostre preferenze FB e che quindi l’indicazione di un possibile partner fosse completamente randomizzata. Avrebbe ancora senso ricorrere a quella app o alle altre infinite applicazioni da cui oggi pretendiamo servizi e prodotti che siano perfetti per noi e per noi solo? Il fatto è che nello scambio tra algoritmo e utente è reciproco interesse che le informazioni scambiate siano le più numerose e le più precise e le più personali: quanto più questo succederà, tanto più l’algoritmo funzionerà al meglio rispetto al suo obiettivo principale, ovvero regalare benessere e piacere al proprio utente e quest’ultimo sarà, appunto, ricompensato con la sua dose (un salario sarebbe un premio un po’ eccessivo, no?).

Non può esserci piacere senza inconsapevolezza

Se da una parte, dunque, sappiamo che il nostro wall è fatto esattamente così perché noi e l’algoritmo, insieme, esattamente così lo abbiamo costruito, dall’altra, per godercelo appieno, abbiamo bisogno di almeno due condizioni. La prima, alla faccia di Lorenzo Cassani, è che dobbiamo dimenticarci di come esso è stato creato, ovvero dimenticare il meccanismo di funzionamento del social, in altre parole dobbiamo diventare giocoforza inconsapevoli, contribuire a infoltire le masse degli ingenui. Solo in questo modo, solo se mi dimentico che chi mi onora con i suoi like è “già mio amico”, solo se dimentico che le opinioni condivise nella bolla sono così vicine alle mie proprio perché fanno parte della mia bolla, solo in questo modo, grazie a questa intenzionale sospensione di consapevolezza, potrò ricevere la mia brava dose di dopa. La seconda e altrettanto centrale condizione per godere dei benefici del social è, collegata in parte alla prima, pensare che quello che io vi trovo (fatti e opinioni) non siano una infinitesimale e infima parte del mondo, ma, in una qualche misura, siano il mondo stesso, siano la realtà.

Se non ne siete ancora convinti, vi invito a (ri)vedervi il buon vecchio Truman.

Un confine sottilissimo

Nel rapporto tra individuo e macchina (consentitemi un altro consiglio) non ha dunque senso parlare di innocenti e colpevoli. Non è colpevole l’algoritmo, se non nella misura in cui noi gli consentiamo di nasconderci la sua vera natura e modalità di funzionamento, non siamo colpevoli noi, se non quando utilizziamo il social per rinunciare a qualsiasi confronto e operazione di trasformazione della realtà. Ha più senso ragionare in termini di consapevolezza/inconsapevolezza, del doppio movimento a cui siamo chiamati e costretti, così come del sottile confine, dello scarto degregoriano che noi comunque pretendiamo e sempre pretenderemo dall’algoritmo.

Se infatti troviamo piacere in un wall che risponda pienamente ai nostri gusti e inclinazioni, dall’altra ogni tanto abbiamo bisogno di una novità, di un colpo d’ala, di una sorpresa che ci sottragga alla noia della specularità perfetta. Se mai ci cancelleremo da Facebook o dagli altri social non sarà per chissà quale breach o perché saremo diventati improvvisamente data conscious. Piuttosto, se mai un giorno diremo basta sarà proprio nel momento in cui il povero algoritmo avrà raggiunto la perfezione e, come tale, avrà reso la nostra esperienza social di una noia mortale, un po’ come se mi abbandonassero su un’isola deserta in compagnia di un altro, assolutamente identico Giuseppe Imbrogno.

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