Palermo

Il monismo perfetto della “nuova Rai” e i vizi di memoria di un paese intero

26 Maggio 2023

Pluralismo, ch’a nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona…

Mi perdonino i puristi se mi sono concesso la liceità di parafrasare il verso 103 della strofa del Canto V dell’Inferno della Commedia scritta dall’Alighieri. Ancorché divina, la Commedia del Dante nazionale rappresenta ancora oggi un testo novellatore di episodi e temi che ben si adattano all’attualità.

Non solo l’amore tra Paolo e Francesca, ma anche il pluralismo è un amore proibito, uno di quegli amori che nasce dal tradimento di una fiducia risposta. Proprio nei giorni scorsi, il concetto di pluralismo è stato in alcune occasioni calpestato. Potrà sembrare desueta la necessità di affrontare filosoficamente gli accadimenti quotidiani ma, proprio quando questi accadimenti negano uno dei cardini della realtà, è difficile tacere. Si può obiettare sul fatto che una concezione filosofica possa diventare strumento di lettura del presente ma val la pena ricordare che filosofia parla della propria vita e di come sia imprescindibile filosofare per poter essere delle persone migliori. Come nel caso del pluralismo, che ci permette di appartenere a una realtà costituita da una pluralità di principi, in contrapposizione al monismo e al dualismo, entrambi spettri di pensieri unici.

Per tornare al tema principale su cui voglio porre la vostra attenzione e, soprattutto, per poter filosofeggiare con un indirizzo preciso e non per astratto o per il gusto di farlo, almeno due episodi accaduti nel giorni scorsi, come già indicato, hanno vilipeso il concetto di pluralismo. Si tratta, in ordine sparso, delle recenti nomine in Rai e degli scontri che hanno caratterizzato la giornata del 23 maggio a Palermo.

In disordine, quindi, inizierei a parlare delle nomine in Rai. Anche in questo caso, non posso non fare riferimento alle esperienze del passato. Seppur è vero che qualsivoglia compagine di Governo, nel tempo, abusando del concetto di servizio pubblico, ha sempre sistemato nei ruoli decisionali e di potere dell’azienda di Stato, persone che, al di là dei loro meriti professionali che non sono messi in dubbio, le assomigliassero. Non posso, però, dimenticare la legge 14 aprile 1975, n. 103, quella legge che si occupò, tra le altre, di ribadire che “principi fondamentali del servizio pubblico, sono indipendenza, obiettività e apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali” e il passaggio del servizio pubblico dal controllo del governo a quello parlamentare. Come fu affrontato, dal giorno dopo, il problema? Quanti hanno almeno qualche capello bianco in testa ricorderanno la Rai lottizzata, termine coniato nel 1974 da Alberto Ronchey, degli anni ’70 e ’80, quella Rai in cui, con buona pace di tutti, furono spartite le influenze politiche tra le tre reti, assegnando RaiUno e RadioDue alla sfera d’influenza della Democrazia Cristiana e RaiDue a quella del Partito Socialista Italiano. RaiTre, invece, fu incorporata in una sfera d’influenza mista comprendente Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, mentre RadioUno e RadioTre furono assegnate all’area socialista, comprendente al tempo il Partito Socialista Italiano e il Partito Socialista Democratico Italiano. Alla legge seguirono due strategie di comando varate dall’allora direttore generale della Rai Biagio Agnes. La prima prevedeva la cosiddetta zebratura, ossia un perfezionamento della più generale lottizzazione, che consisteva nel far convivere all’interno di una stessa struttura ulteriori quote prefissate di democristiani, socialisti, comunisti, socialdemocratici e repubblicani mescolando aree di appartenenza politica e professionalità mentre la seconda assegnava in toto RaiTre al Partito Comunista, al fine di rafforzare definitivamente la stabilità politica dell’azienda e la stessa presenza della Democrazia Cristiana. RaiTre, nel tempo, si trasformò da canale-Cenerentola della tv di Stato a contenitore di programmi di culto, lanciando personaggi rimasti per anni sulla cresta dell’onda. Erano i tempi in cui, grazie a Angelo Guglielmi, direttore di un’indimenticabile stagione di RaiTre, il canale fu soprannominato, dai suoi detrattori, Tele Kabul per criticarne la fedeltà alla linea del PCI, e in seguito PDS, partito di riferimento della rete. In realtà quelli furono gli anni in cui RaiTre vede crescere notevolmente i suoi ascolti, di pari passo con l’aumento della copertura del segnale su tutto il territorio nazionale e, anche, grazie al Tg3 diretto da Alessandro Curzi, altro artefice dell’identità che fu definita kabulista.

Le ultime nomine dell’attuale Governo hanno però, definitivamente, soppresso il concetto di pluralismo per far assumere all’azienda di stato un aspetto monista, quella concezione filosofica che considera la realtà come essenzialmente unica o riducibile a un unico principio fondamentale, sia esso spirituale o materiale, in evidente contrapposizione del dualismo e del pluralismo. Si tratta di un’evoluzione? Ai posteri l’ardua sentenza come scrisse il Manzoni, perché nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, quel Massimo Fattor non divino che vede la necessità di potersi specchiare ovunque, senza porsi alcun problema, quasi a volersi ribadire senza il ben che minimo contraddittorio, dimenticando, ad esempio, che ogni cittadino paga quel famoso Canone che riguarda la detenzione nell’ambito familiare di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive sulla base degli art. 1 e 2 del R.D.L. 21-2-1938 n. 246 e modificazioni successive e che ogni cittadino esprime il proprio consenso elettorale in maniera autonoma e individuale, certamente non monista o dualista, visto l’attuale ordinamento elettorale che cerca di garantire, in Italia, il concetto di democrazia e pluralismo.

L’altro argomento che denota una mancanza di pluralismo occorso nei giorni scorsi, come già indicato, è quello relativo agli scontri avvenuti a Palermo il 23 maggio. In sintesi, ma non per semplificare, ritengo che sia necessario ribadire due concetti. Il primo è relativo alla legalità. Le regole devono necessariamente considerate ineludibili e pertanto inevitabili. Il confine tra legalità e illegalità non è un semplice laccio da scarpe posato per terra, un blando e morbido confine che possiamo agevolmente spostare per far sì che i nostri interessi, sociali o personali, vengano inclusi. Il confine, per usare un esempio, è una corda d’acciaio ben tesa e da non scavalcare. Il secondo concetto sul quale vorrei soffermarmi è quello della (non) proprietà della memoria. Innanzitutto deve essere chiaro che è necessaria un’osmosi tra memoria e relativa comunicazione pubblica, ossia la cosiddetta memoria pubblica. Quando la memoria diventa un fatto privato di cui si detiene il primato si nega, innanzitutto, uno dei crismi fondamentale della gestione della memoria, quel percorso che si occupa di prendere le singole memorie individuali e trasformarli in memoria collettiva.

Gerard Namer, nel suo Mémoire et société edito nel 1987, scriveva “La memoria collettiva è fondamento e insieme espressione dell’identità di un gruppo e rappresenta il passato: ogni gruppo seleziona e riorganizza incessantemente le immagini del passato, in relazione agli interessi e ai progetti che predominano nel presente. La memoria collettiva dei singoli gruppi andrebbe distinta dalla memoria sociale, intersezione o prodotto delle dinamiche reciproche delle diverse memorie collettive presenti in una società, derivate dall’insieme delle tracce del passato virtualmente disponibili”. Quello che è andato in scena a Palermo è l’evidente segno che qualcuno, o forse qualche due, ritiene opportuno preferire il concetto di memoria sociale a quello di memoria collettiva e lo fa con gli strumenti che ha a sua disposizione, siano essi dissenso, potere o interessi.

Nello specifico, di chi è la memoria di quanto accaduto il 23 maggio 1992? O meglio, di chi dovrebbe essere? Senza dubbio della collettività che, nello specifico, proprio su quanto accaduto quel 23 maggio ha cercato di ricostruire le trame e le file del proprio essere, della propria identità, sia sociale sia culturale, e di condividerla.  Ecco, questa è un’altra bella parola calpestata nei giorni scorsi. Condivisione, ossia l’utilizzo in comune di una risorsa, di un bene o di conoscenza. Forse la memoria non è un bene, una risorsa e una conoscenza, che è necessario condividere?

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