Società

Più democrazia deliberativa per rispondere al razzismo che c’è

19 Luglio 2015

E’ sempre difficile chiamare le cose con il loro nome. E’ difficile, ma bisogna farlo.
A Mattia Feltri che lo intervista, il Prof. Franco Cardini sostiene che negli episodi degli ultimi giorni non si può parlare di razzismo. “No, non è razzismo e chi lo sostiene cambia le carte in tavola. Intanto la parola razza è ormai compromessa, nonostante sia stata usata in tutto l’800, che è un secolo di impronta scientifica. E infatti il razzismo è una teoria basata su presupposti scientifici, e non significa che siano presupposti veri”.

C’è del vero, ma ho la sensazione che il rifiuto dell’uso della parola nasca dalla paura della parola. E nasca anche dalla sensazione di non avere una politica per rispondere a quella parola che non sia segnata dalle vicende del passato. Che cos’è il razzismo nel XXI secolo? Non è necessariamente ed esclusivamente la pratica dichiarata dello sterminio; e non è la richiesta rivolta a un gruppo specifico di sparire. Le politiche del razzismo nel XX secolo hanno lasciato il segno. Ma questo non significa che ciò che abbiamo davanti non sia ancora classificabile in quella categoria.
Può darsi che xenofobia sia la denominazione corretta, ma ciò non toglie che il desiderio che muove quelle politiche e quelle azioni, l’immaginario che le accompagna, muove da un principio molto semplice: il tuo posto non è qui, è altrove. Dove questo altrove sia, quanti confort lo caratterizzino, se e in che forme quel luogo risponda e risolva il tuo problema non sono affari miei. Io qui non ti voglio.

È la stessa logica della curva degli ultras da stadio. L’invito agli avversari di andare ad Auschwitz e di non tornare (ovviamente) non fa necessariamente di quel gruppo una sezione del parto neonazista (anche se alcune premesse ci sono), ma questo non significa che chi invoca quel luogo non sappia di esso due cose essenziali: 1. Che è esistito e che ha funzionato; 2, che vi furono inviati individui vagheggiato come nemici irreducibili e che da lì la maggior parte di loro non tornò. Si può ritenere che la risposta efficace sarebbe una lezioncina di storia, magari con il dito alzato, per sostenere che certe cose è meglio non dirle?

I fatti degli ultimi giorni preoccupano giustamente tutti i democratici. In Italia c’è il razzismo. Non è un residuo di un altro tempo, ma un modo di esprimere l’identità nazionale di questo nostro tempo. Dunque si tratta di dare una risposta al razzismo che c’è trattando questo problema non come un malinteso o come “buona fede estorta”.
Ma il problema non è solo culturale, anche se certo la cultura ha un peso non irrilevante e non è solo se quel pezzo di Italia fa spavento, come giustamente sostiene Donatella di Cesare.
Quella convinzione, trae forza anche da altro. E qui non c’entra il razzismo, ma la crisi della democrazia.

Quei fatti chiedono di essere analizzati anche come una sfida a trovare procedure che coinvolgano le persone attraverso un percorso di riflessione e informazione che formuli soluzioni concrete e razionali. Una democrazia in cui i cittadino non solo votano per dei politici a cui delegano l’amministrazione delle cose pubbliche per un tempo, ma parlano anche tra loro e con degli esperti. È ciò che i politologi chiamano democrazia deliberativa. Una forma di democrazia all’interno della quale le deliberazioni collettive occupano un posto centrale e i partecipanti, fondandosi su informazioni e argomentazioni ( e non su una realtà “percepita”, ma su una realtà concreta, con dati, misurabili, e verificabile) formulano soluzioni razionali, concrete soprattutto in risposta alle sfide sociali che si presentano. Un tema su cui opportunamente ha insistito Nadia Urbinati nel suo Democrazia sfigurata.

Non sarà sufficiente, una componente razzista rimarrà, ma quella procedura forse toglierà terreno di consenso al razzismo che c’è.

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