Società
Phia Ménard, una replicante sul tetto d’Europa
Drammaticamente in bilico. Phia Ménard misura con lo sguardo la sua costruzione di cartapesta mentre dondola in equilibrio precario. Imponente, occupa tutta la lunghezza del palcoscenico laddove è spuntata all’inizio dello spettacolo come un grande fungo, messo in piedi con un certosino lavoro di taglia e incolla. Regista, attrice, coreografa e danzatrice, jongleuse _ in italiano si traduce giocoliera ma non rende la complessità di un lavoro che affonda la sua nobiltà nella notte dei tempi teatrali _, Ménard è una performer totale che sonda i confini tra maschile e femminile usando le arti con spirito glam e attitudine cyberpunk per farci capitombolare giù nel magnifico e intenso «Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère», spettacolo che sfugge a qualsiasi etichetta (danza, mimo, nuovo circo?) coraggiosa apertura giorni fa della stagione di Sardegna Teatro davanti a un pubblico colpito e conquistato. L’attrice si aggira abbigliata e truccata come Prys, la bionda replicante compagna di Roy Batty (interpretato da Rutger Hauer) del cult movie “Blade Runner”di Ridley Scott, tratto dal romanzo “Do Androids Dream of Elecric Sheep?” del geniale Philip K.Dick a cui in parte sembra rimandare descrivendo una realtà dove i riferimenti sono sfumati e tutto appare instabile senza punti d’appoggio (ma anche simile a un atto beckettiano, a qualcuno di quei strepitosi allestimenti della coppia Remondi e Caporossi).
Con passo marziale gira attorno all’edificio che prende forma lentamente: ne studia le pareti, manovrando con abilità alcune aste di ferro di diverse dimensioni. Queste, simili a gladi e lance di guerrieri, vengono sistemate negli angoli del futuro palazzo, come leve e punti d’appoggio mentre le pareti scricchiolano, i pezzi del puzzle combaciano a fatica con il rischio che il tutto possa crollare addosso, d’improvviso. Concentratissima calcola lo spazio occupato dall’enorme e traballante involucro per valutare il luogo migliore per il prossimo “attacco” armata di lance e rotoli di scotch. A tratti sembra avere uno sguardo indagatorio che scruta più lontano. In un punto indefinito dello spazio. I teatranti, si sa, hanno la vista lunga. E il loro compito spesso ingrato, come per tutti gli artisti, è quello di essere delle antenne sensibili.
Vati e poeti per leggere e interpretare il presente e il futuro traducendolo per sineddoche e metafore. Aruspici di un destino che spesso si consuma attorno a chi è ignaro. Phia ha lo sguardo lungo di uno scout indiano. Ripercorrendo le vicissitudini dell’Europa, in un batter d’ali prende le coordinate dei nostri spazi intimi e politici, personali e sociali. Vicende comuni e individuali che corrono parallele a quelle collettive. Dall’inizio della civiltà occidentale ai momenti di caduta più recenti come l’ultimo conflitto mondiale, causa di morte e distruzione, ingiustizia e miseria, genocidio e razzismo. Il sonno della ragione. Attimi che potrebbero persino tornare: per fermarli è il momento di ripensare le radici comuni. Ecco così Atena dea della saggezza, delle arti e della guerra. Il suo luogo sacro è il Partenone, il tempio dedicatole sull’Acropoli della città. Quello stesso che nello spazio di un’ora con puntigliosa perfezione la performer ha ricostruito in sedicesimo sul palcoscenico. Impresa degna di un Fitzcarraldo. Non è di marmo e pietra ma di cartone.
Come le centinaia di case surrogato che, per salvarsi l’anima tirarono su, fragili e leggere nel dopoguerra: dovevano rimpiazzare quelle distrutte dalla furia degli spezzonamenti degli aerei angloamericani a Nantes per preparare lo sbarco in terra francese. Non risparmiarono certo vittime tra i civili. Come il nonno di Ménard finito in una fossa comune. A rimpiazzare quelle case buttate giù dalle bombe un piano Marshall per zittire le coscienze. Tante piccole case, una uguale all’altra. Finte e fragili. Come quelle edificate all’Aquila dopo il terremoto. Storie che si ripetono. Sono uno degli emblemi più evidente di come questa Europa rischia di finire in pezzi. Ecco così che Ménard in questa sorprendente performance, commissionatagli lo scorso anno da Documenta di Kassel, e che nei fatti è la prima tappa di un trittico, ha scelto proprio il tempio di Atene come momento alto della progettazione architettonica, simbolo di bellezza e grandiosità della civiltà occidentale.
Non è un caso che il luogo sia la Grecia, anello più debole del nostro Continente, due anni fa sull’orlo del default economico, altro specchio con cui riflettersi sgomenti. Fotografia impietosa della solidarietà tra i Paesi della Comunità, oggi in forte crisi di identità, lontana dal progetto dei padri fondatori. E’ da ripassare quella lezione, cominciando a ricostruire, anche per affrontare la prossima crisi futura: il riscaldamento climatico che finirà per essere devastante. Una goccia. Più gocce. Inizia a piovere sul Partenone di cartapesta. La pioggia diventa sempre più fitta. Cresce e va oltre la replica del monumento stesso, fino ad inondare la scena.
Una pioggia battente, insistente e continua come nel film “I Sette Samurai” di Kurosawa. Un diluvio che fa crollare giù il tetto appena costruito con dedizione degna di una dea. Dalle sue rovine, mentre si formano i rigagnoli che giungono al proscenio sale un fumo denso e bianco, una fitta e impenetrabile coltre di nube lattea: una visione surreale tra lo scroscio abbondante, il cartone che si affloscia sotto il peso dell’acqua e la luce che si smorza. Phia, ultima dei samurai, osserva il compiersi della catastrofe.
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