Costume
Per una epidemiologia della stupidità
La descrizione che segue propone ai lettori un piccolo indovinello per passare il tempo in queste lunghe giornate di clausura. Il ritratto, pur potendo venire identificato, si riferisce ad una maschera: quella della vanagloria boriosa e arrogante. Raramente, in effetti, questa maschera ha vantato un interprete più talentuoso ma la caratteristica della commedia dell’arte italiana è che gli attori cambiano ma i personaggi e le maschere restano sempre gli stessi. Dunque se riuscite ad apporre alla descrizione un nome e un cognome: bene. In caso contrario: bene lo stesso.
Scomunica e anatema, proiettili ormai scarsamente contundenti se lanciati da un altare, si rivelano ancora piuttosto efficaci scagliati da una postazione “scientifica” – meglio se con attinenze cliniche, vista l’ipocondria di massa. Gli artiglieri in camice diventano preziosi e vengono ricompensati con quella visibilità che è, oggi, la moneta sonante con cui si saldano le marchette. Questo qui, per esempio, a pochi giorni dal manifestarsi della epidemia aveva già, pronto da smerciare, un libro sull’argomento. La sua vocazione, per la verità, era di tipo inquisitorio e sacerdotale ma nessuna religione può garantire alla intolleranza una botte di ferro statistica. Solo la “scienza” le consente di avere il conforto dei numeri. Nell’eterna commedia dell’arte italiana egli si è dunque incarnato nella maschera della presunzione scientista. Quella di chi, oltre a rompere la minchia, rompe tutti gli argini della decenza intellettuale tracimando in ogni campo dello scibile. Il vate scientifico dell’italiano medio; il faro dei naviganti della mezza cultura, che “ci hanno il pezzo di carta” (dottori, professori, impiegati di concetto…) e lo agitano come un lasciapassare; un modello di riferimento per chi addita le orecchie altrui e non si accorge di quanto siano lunghe le proprie né di quale coda le accompagni. La sua effige campeggia ormai in ogni latrina televisiva, inevitabile come il cazzo disegnato sugli stalli dei cessi pubblici. E’ così vanitoso da credersi il prescelto per salvare il mondo con la “scienza” mentre si tratta solo di salvare la scienza da lui. Più che un virologo è un virus. Basta che ci entri in contatto e i tuoi coglioni se ne vanno in frantumi. E’ asintomatico. Si presenta col certificato di laurea e ti fa credere che esso garantisca contro l’imbecillità del portatore. Ignora o finge di ignorare che un imbecille può anche conseguire un dottorato ad Harvard ma resta tuttavia un imbecille. Verità lapalissiana che egli incarna per contrasto. Nella sua visione del mondo avere una laurea in medicina eleva al rango della finesse sapienziale ma ogni parola che pronuncia o che scrive testimonia di una rozzezza intellettuale senza pari. Il suo tormentone è: la scienza non è democratica. Una banalità e, al contempo, anche una sciocchezza. Una banalità quando la si proietti sull’ordinata dell’aritmetica – “due più due fa quattro”- sottolineando con compiaciuta vanagloria ciò che solo un cretino potrebbe negare, ovvero che la cosa non si stabilisce a maggioranza. Una stupidaggine, invece, quando la si verifichi sull’ascissa della politica, laddove la scienza, cerniera di relazione tra l’uomo e la natura, non può non giocare un ruolo nella polis ed essere dunque democraticamente (o autoritariamente) gestita. Ma mitizzare la “scienza”, toglierle il suo posto nella polis e trasformarla in superstizione oscurantista e scempiaggine da sciocchezzaio, oggi, è un compito ambito. Chiunque vi si cimenti merita il successo che ha. E questo, al momento, di successo ne ha tanto.
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