Famiglia
Paternità
Giuro che mi sono distratto solo un attimo. Filippo era seduto sulla sabbia vicino alla mia sdraio, spingeva due automobiline sulla pista che avevamo appena costruito, un bell’otto di terra battuta, ancora bagnata perché resistesse sulle sponde. “Brum brum”, faceva, imitando i motori rombanti. Non è che un padre deve stare incollato al figlio come una ventosa. Avevamo giocato insieme, e ora mi fumavo una sigaretta guardando il mare, la gente in costume sulla riva, il pedalò del bagnino con i remi issati a prua, due enormi salvagenti bianchi e rossi, e la scritta SALVATAGGIO che si leggeva a rovescio: OIGGATAVLAS. Mi ero un po’ fissato a pensare perché mai dal punto dove mi trovavo quelle lettere fossero stampate al contrario. Come sugli elicotteri della polizia che sorvolano il lido a bassa quota: AIZILOP. Ma, appunto, sarò rimasto così, soprappensiero, per non più di tre minuti. Il tempo di una sigaretta, anche meno. E Filippo era proprio lì accanto, “brum brum” come una colonna sonora che mi rullava nelle orecchie. Forse per questo me ne sono accorto, quando non ho più sentito la sua vocina cullante, e mi sono voltato a guardarlo e non c’era. Silenzio. Le due automobiline e una paletta abbandonate sopra l’asciugamano, insieme ai suoi sandali di gomma. Lui dov’era finito? Se ne stava seduto tranquillo fino a un momento prima. Mi sono alzato di scatto, sollevando gli occhiali da sole sulla fronte. Mica se ne sarà andato al bar, a prendersi un bicchiere d’acqua, senza avvisarmi? Oppure alle docce, per bagnarsi i piedi, o incontro all’amichetto tedesco conosciuto all’hotel?
“Filippo!” chiamavo alzando la voce. Non proprio forte, per non allarmare i vicini, ma insomma in modo che lui, se non fosse stato troppo distante, potesse sentirmi. E intanto allungavo lo sguardo dappertutto, agli ombrelloni vicini, dove scorgessi altri bimbi della sua età, o mamme zelanti che lo avessero trovato, ansiose di riportarmelo. “Sta cercando qualcuno? Ha perso qualcosa?”, mi si era avvicinata una signora alta secca ed elegante, con un pareo arabescato e un cappello di paglia che le copriva mezzo viso. “Il mio bambino”, risposi, già sentendomi incriminabile per abbandono di minore: umiliato e colpevole, con la voce che mi tremava. “Il suo bambino? E da quando non l’ha più visto?” “Non so, credo dieci minuti…” “Ah be’, allora non si sarà allontanato di molto, basta dare un’occhiata qui intorno”. Si erano raccolte altre cinque e o sei persone, e mi incalzavano di domande, scrutando ovunque nel tentativo di scovare, sulla spiaggia affollata, tracce di mio figlio. “Come si chiama il piccolo?” “Filippo”, non feci in tempo a rispondere che voci diverse cominciavano a chiamare “Filippo, Filippooo…” “Ma è quel bimbo bellissimo, con la testa piena di ricci?” Tra senso di colpa e terrore sentivo insinuarsi in me un legittimo orgoglio genitoriale: “Sì, è molto bello, biondissimo, con gli occhi scuri e grandi”. “Vedrà che lo ritroviamo presto, non si preoccupi! Altrimenti chiediamo alla direzione di fare un annuncio con l’altoparlante, prima di allertare i carabinieri”, protettivo e rassicurante, un uomo barbuto mi faceva coraggio. I carabinieri, l’altoparlante, volantini appesi ovunque o lanciati dagli alianti per tutta la riviera: l’ansia mi serrava la gola, mentre davanti a me si rincorrevano allucinate e minacciose le ipotesi più terrificanti.
“Ma sua moglie dov’è?” “È rimasta a riposare in albergo, ho accompagnato io qui il bambino, subito dopo pranzo. Giocava vicino alla mia sdraio, mi sarò forse distratto un attimo, e improvvisamente non l’ho più visto”. La signora elegante chiedeva di che colore avesse il costume, e io sinceramente non riuscivo a ricordarlo, forse rosso, o giallo, sentendomi sempre più confuso. “I sandaletti sono qui, vedete, non li aveva addosso”. L’uomo saggio sentenziò che con la sabbia bollente, a piedi nudi non avrebbe potuto andare lontano. E allora, crudelmente, sospettosamente, un altro aggiunse: “A meno che qualcuno non l’abbia preso in braccio”. Un rapimento? Mi si annebbiava la vista. Poteva essere successa una cosa del genere a me, che mi sono sempre vantato della mia paternità prudente, affettuosa, responsabile? “Anche lei, però, non riuscire a badare per qualche ora a un bambino così piccolo!”, fioccavano commenti e rimproveri. Poi il gruppetto curioso e asfissiante si disperse in diverse direzioni, ciascuno offrendosi di andare a cercare Filippo chi ai lavatoi, chi al bar, chi alle cabine.
Io come un automa mi diressi verso il bagnasciuga. Davanti agli occhi, mentre camminavo con le gambe in acqua tra tanta gente, mi ballavano immagini spaventose, di un cadaverino galleggiante tra le onde, di una piccola bocca premuta da una gigantesca mano pelosa, di mia moglie urlante e disperata, di me in tribunale. Anch’io chiamavo, Filippo, Filippooo, con voce spezzata, e una ragazza abbronzatissima mi rifece il verso “Filippooo”, spruzzandomi addosso gocce d’acqua salata, divertita e scema. “Non trova più il suo bambino?” mi affrontò una donna corpulenta, dalla faccia ottusa “Doveva starci attento!”, scuoteva la testa disapprovante, come a dire “ben ti sta! questi papà moderni che non sanno fare i padri…”. Vagavo su e giù, con lo sciabordio del mare che mi lambiva i polpacci, accarezzandoli, e conchiglie spezzate e granchietti nascosti sul fondo mi pungevano le piante dei piedi. Non riuscivo a scorgerlo da nessuna parte, il mio piccolino, e provavo a convincermi che non avrebbe potuto spingersi da solo al largo, timido e spaventato da tutto com’era.
“Si è perso un bambino di quattro anni, si chiama Filippo, è biondo, indossa solo il costume ed è scalzo. Chi lo trovasse è pregato di portarlo alla direzione del bagno Perla d’argento”. Già lo stavano cercando, quindi, e mi sembrava che ogni cosa si stesse svolgendo indipendentemente dalla mia volontà, quasi non mi riguardasse. Tornai all’ombrellone. L’uomo con la barba era lì che mi aspettava. “Con questo sole, almeno aveva un cappellino in testa?”, chiedeva biasimante, certo sentendosi migliore di me, lui padre senz’altro affidabile e assennato. No, non aveva il cappellino, non indossava i sandali, non sapevo di che colore fosse il suo costume, non l’ho controllato per dieci minuti e lui è sparito. Sono un pessimo genitore, un essere deprecabile. Ero disperato. Tornarono alla spicciolata i pietosi volontari che si erano impegnati nelle ricerche. La signora elegante: “Ho bussato alle porte delle cabine occupate, ho ispezionato quelle vuote: nessuno ha visto Filippo”. L’anziana apprensiva: “Al bar mi hanno assicurato che spargeranno la voce”. Il vicino sospettoso: “La direzione intensificherà i messaggi con l’altoparlante. Ma non sarebbe opportuno chiamare i carabinieri?” Forse sì, fu l’opinione comune, chiamiamoli, tanto comunque ci metteranno ore prima di intervenire. Nel frattempo, sarebbe opportuno avvisare la mamma. “No, non ci vada lei all’albergo. Ci andrà uno di noi. Lei rimanga qui sotto l’ombrellone, nel caso il bambino tornasse da solo. Noi continuiamo a cercare, ci mancherebbe altro, suvvia, ciascuno di noi ha figli e nipoti…” Grazie grazie, ripetevo frastornato e incupito, timoroso della reazione che avrebbe avuto mia moglie.
Poi, d’un tratto, l’uomo di prima mi venne incontro ansante, col cellulare in mano. “L’ha trovato! L’ha trovato mia figlia Francesca! Guardi che mi ha mandato la foto…” Gli strappai di mano il telefono, e sì, davvero: era Filippo, il mio bambino, il mio tesoro bellissimo: addormentato, coperto da un asciugamano, sulla sdraio di chissà chi. “Franci, Franci! Dove sei? Dov’è il bambino? Il suo papà l’ha riconosciuto! Dimmi dove sei che ti raggiungiamo”. Insieme, correndo, io e il padre di Francesca, seguendo le indicazioni di lei, raggiungemmo la seconda fila di ombrelloni davanti a noi, dove si erano radunate in silenzio alcune persone. Fui accolto da sorrisi, manate sulle spalle, e qualche commento acidulo. “È stato fortunato. Stia più attento in futuro”, mentre in molti si congratulavano con la ragazzina salvatrice. “Sei grande Franci, sei grande!”, ripeteva tronfio e fiero della sua prole l’uomo sospettoso. Mi piegai su Filippo, che continuava a dormire beato. Lo presi in braccio, gli sfiorai con le labbra i capelli sudati, avviandomi verso il nostro ombrellone e salutando tutti con cenni imbarazzati del capo. Commosso, provato, pentito, non mi ero sentito mai così padre, e madre, e fratello maggiore, e amico, di mio figlio e del mondo intorno.
Vidi mia moglie che aspettava tra altra gente: agitata, sul punto di piangere non so se di gioia o di rabbia. Ci corse incontro, mi tolse il bambino dalle braccia, se lo strinse addosso svegliandolo coi baci, circondata da altre madri solidali che tentavano di calmarla, “tutto è bene quel che finisce bene”, dicevano, “che bel bambino”. Evviva, congratulazioni, un accenno di applauso. Io rimanevo lì impalato, zitto. Prima di allontanarsi, mia moglie mi rivolse un’occhiata di compatimento, e una sola parola: “idiota”. Filippo, guardandomi al di sopra della spalla di lei, ancora assonnato, mi fece ciao con la manina, serio come un adulto.
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