Calcio
Özil: un addio con milioni di sconfitti
La dichiarazione più appropriata è arrivata da Katarina Barley, ministra della Giustizia del Governo Merkel: “Se un grande calciatore tedesco come Mesut Özil non si sente benvoluto nel suo Paese a causa di razzismo e non si sente rappresentato dalla DFB (Federcalcio tedesca), questo è un segnale di allarme”. Le parole sono scelte con cura, ad una a una. E riprendono l’ultima frase della lunghissima dichiarazione in tre atti, con cui il campione del mondo 2014, ha annunciato domenica sera l’addio alla nazionale tedesca “Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato“.
Già il fatto che proprio Özil abbia speso oltre 2500 parole, parlando non solo di razzismo, ma anche di multiculturalismo, religione, politica, media, lui che solitamente a fatica commenta un gol, dà la misura del problema. Inoltre non è sfuggito a nessuno il fatto che le dichiarazioni siano state fatte in inglese: è al mondo che sto parlando, sembra dire la star di Gelsenkirchen in forza all’Arsenal.
Ma andiamo con ordine.
Tutto inizia il 5 maggio, quando lo stesso Özil e altri due calciatori tedeschi di origini turche, il nazionale Ilkay Gündoğan (Manchester City) e Cenk Tosun (Everton) incontrano il Presidente Erdoğan; pubblicano foto, gli regalano la maglia, Gündoğan (che ha la doppia cittadinanza) la dedica al “suo Presidente” (foto: Getty Images). Emre Can, anch’egli nazionale tedesco in Inghilterra (Liverpool), pare non essersi prestato allo spot elettorale di Erdoğan.
Perché questa è la critica immediata da parte di giornalisti e politici: non è possibile che due calciatori della nazionale tedesca sostengano di fatto la campagna elettorale (in Turchia si sarebbe votato a Luglio) di un leader illiberale, che nega i diritti alle minoranze, che rappresenta il contrario dei nostri valori democratici.
I due giocatori cercano di metterci una pezza. Due giorni dopo incontrano il Presidente Steinmaier, Gündoğan riconosce che il suo gesto poteva essere malinterpretato. Non Özil, che tace. Ma intanto, nel giro di pochissimi giorni il tono delle critiche cambia di 180 gradi, alle critiche da sinistra si sostituiscono le critiche da destra: il problema non è l’assenza di democrazia in Turchia, bensì il fatto che un calciatore tedesco abbia in un qualche modo contaminato la sua appartenenza alla cultura nazionale. Battono su questi tamburi ovviamente la AfD, che vuole una nazionale di veri tedeschi, alcuni politici della CSU, preoccupati da mesi di contendere gli elettori di estrema destra, la stampa popolare come la Bild Zeitung, le tv commerciali. Özil e Gündoğan non cantano l’inno (ma nemmeno Boateng, Khedira, Rüdiger…), Özil e Gündoğan non sono degni di portare l’aquila sul petto.
Alle strampalate richieste di esclusione dalla nazionale, il commissario tecnico Jogi Löw e il direttore generale Oliver Bierhoff rispondono che non se ne parla nemmeno e che, insomma, è ora di finiamola, che dobbiamo difendere il titolo di quattro anni fa, non possiamo distrarci. Visto che oltretutto, la squadra non è in forma, è reduce da diverse sconfitte nelle ultime amichevoli. A Colonia, dove la nazionale fatica contro l’Arabia Saudita nell’ultima partita di preparazione ai mondiali, Gündoğan viene costantemente fischiato dal pubblico. Difficile non pensare ad un’azione organizzata, soprattutto considerando che la città renana è il luogo di nascita degli HoGeSa, gli Hooligans gegen Salafisten, organizzazione di ultras di estrema destra anti-islamici. Eppure la difesa da parte della DFB (la federcalcio tedesca) è pallida, stanca. Non solo; il presidente Reinhard Grindel ha un atteggiamento ambivalente: da un lato chiede di chiudere la discussione, mentre dall’altro continua a stigmatizzare il silenzio di Özil. Qui è bene sapere chi sia Grindel: parlamentare della CDU dal 2002 al 2016, nel 2013 si era fatto conoscere per aver fortemente avversato la legge sulla doppia cittadinanza.
Quel che accade dopo il 15 luglio lo si vede sulle TV di tutto il mondo. La Germania gioca tre pessime partite e viene eliminata senza appello. Özil non gioca certo peggio di altri (Müller, Kimmich, Kroos, Hummels, Draxler, Boateng sono tutti al di sotto delle loro possibilità), ma diventa il Sündenbock della squadra, il capro espiatorio. Il termine che si sente più spesso in quei giorni è Körpersprache: il linguaggio del corpo, l’atteggiamento. Özil viene accusato di non impegnarsi abbastanza per evitare le sconfitte. La cosa è peraltro bizzarra, dal momento che chiunque conosca il calcio ben sa come il modo di giocare di Özil sia sempre stato molto poco appariscente; proprio in quello sta la sua forza, nei passaggi dal nulla, nelle invenzioni. Tant’è. Vale la pena di segnalare gli attacchi inqualificabili di ex calciatori come Mario Basler, Lothar Matthäus, Uli Borowka, interpreti di quel calcio tutto corsa e potenza, quando la Germania non aveva ancora conosciuto le novità di Jürgen Klinsmann; e l’apporto dei figli dei migranti.
Perché questa è la questione principale. Dal 2006 la Federcalcio tedesca, grazie all’apporto di Klinsmann, Bierhoff, Löw, il Presidente della DFB Zwanziger e con l’appoggio dei governi Merkel e gran parte della politica, alla riforma dello stile di gioco aggiunge un enorme rinnovamento culturale, basato sull’integrazione dei giocatori di origine straniera, la lotta al razzismo, la formazione dei giovani, il rilancio della presenza delle donne (oltre ai successi della nazionale femminile, ci sono arbitre e telecroniste), fino alla discussione di temi tabu quali la depressione e l’omosessualità. A nessuno sfugge che se i campioni del mondo del ’90 si chiamavano Jürgen, Lothar e Franz, quelli del 2014 si chiamavano Miroslav, Sami, Jerome. Su questi temi scrivevo non più di otto mesi fa, proprio su Gli Stati Generali.
E questo, evidentemente non piace a tutti.
Nella pericolosa tendenza che sta prendendo piede negli ultimi due anni, dove un partito di estrema destra come l’AfD raggiunge il 15% dei voti nei sondaggi e valori anche più alti in alcune regioni, dove espressioni ignobili vengono sdoganate in nome della “vicinanza al popolo”, dove si intensificano gli attacchi ai buonisti, rullano i tamburi di chi vuole restaurare il calcio di una volta, legato a quella che per alcuni è ancora la deutsche Leitkultur, la cultura dominante.
È difficile ora immaginare come andrà a finire. Özil, che pure, a differenza di Boateng, Klose o Khedira, non aveva mai speso parole per sottolineare l’importanza del multiculturalismo, era diventato un simbolo silenzioso della Germania multiculturale; la sua foto con la Cancelliera Merkel durante i Mondiali del 2010 (Guido Bergmann / dpa), valeva davvero più di mille parole: i ragazzi dei quartieri ad altissima percentuale di migranti raccontavano di sentirsi più a casa loro. Ora cosa diranno gli stessi ragazzi quando leggeranno le parole del loro idolo “Agli occhi di Grindel e dei suoi sostenitori, sono tedesco quando vinciamo, ma quando perdiamo sono un immigrato“, così simili a quelle di Lukaku, Benzema, Balotelli? E non è l’unica accusa di Özil contenuta nella lunghissima dichiarazione su Twitter (in Italia riportata interamente dal Post). Özil (certamente aiutato dai suoi consulenti) scrive quasi un documento politico; un po’ sgangherato, forse, ma senz’altro politico. Comincia dicendo “Come molte persone, ho origini in più di un paese“; spiega perché ha incontrato Erdoğan (“Per me fare una foto con il presidente Erdogan non riguardava la politica o le elezioni. Ero io che portavo rispetto all’istituzione più importante nel paese della mia famiglia“); ricorda sottilmente come nessuno in Germania si sia lamentato dell’incontro tra Lothar Matthäus “con un altro leader mondiale” (Putin, che in Germania gode della stessa reputazione del leader Turco); critica lo sponsor che hanno levato il suo volto dalla campagna sui Mondiali e perfino la scuola da lui frequentata a Gelsenkrichen, che ha cancellato un incontro; ma soprattutto attacca Grindel accusandolo senza mezzi termini di alimentare la propaganda di destra ed il razzismo crescente nel Paese.
“Riguardo a te, Reinhard Grindel, sono deluso ma non sorpreso dalle tue azioni. Nel 2004, quando eri un membro del Parlamento tedesco, dicesti che il “multiculturalismo è in realtà un mito e una eterna bugia”, votasti contro una legge per la doppia nazionalità e per punire la corruzione, e dicesti che la cultura islamica era diventata troppo radicata in molte città tedesche. Questo è imperdonabile e non si può dimenticare. Il trattamento che ho ricevuto dalla DFB e da molti altri mi ha portato a decidere di non volere più indossare la maglia della nazionale tedesca. Mi sento non voluto e penso che quello che ho raggiunto fin dal mio esordio internazionale nel 2009 sia stato dimenticato. Persone con idee così razziste e discriminatorie non dovrebbero poter lavorare nella più grande federazione calcistica al mondo, che ha molti giocatori con famiglie con doppia origine”
La Süddeutsche Zeitung ha titolato uno splendido articolo “Un addio con milioni di sconfitti“: non si riferisce solo al sorprendente comportamento di Özil, in silenzio per 80 giorni interrotto improvvisamente e nel modo più impensato, o alla sciagurata gestione del caso da parte della DFB.
Si riferisce soprattutto al fatto che il caso rischia di dare un colpo decisivo alle milioni di persone che credono e lottano per una società aperta, moderna e multiculturale.
Le prossime settimane e i prossimi mesi daranno una risposta a questi timori.
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