Medio Oriente

Oltre il terrorismo: l’amicizia (im)possibile tra religione e politica

6 Dicembre 2015

Hamid, Shadi, Temptations of Power: Islamists and Illiberal Democracy in a New Middle East, Oxford University Press, 2014.

 

L’Isis, il terrorismo, la religione, la laicità, il liberalismo, la democrazia, la ricerca della cosiddetta moderazione nell’Islam tra periferie europee e Medio Oriente… parole, definizioni, luoghi sfuggenti e imprecisi, in un discorso pubblico spesso affannoso, approssimativo, incattivito.

Temptations of Power è un libro del 2014, scritto prima dell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo e dei più recenti attacchi nella capitale francese, e tuttavia le sue pagine sono una sorta di mozione d’ordine concettuale rispetto al magma che vi ha fatto seguito, teoria ben fondata nella ricerca empirica, occasione per rendere le idee più chiare e distinte. Il suo autore – non molto noto in Italia – Shadi Hamid, senior fellow presso il Brookings Institute, “an American-Egyptian born in Pennsylvania” di religione musulmana.

Al cuore dell’argomentazione una tesi, il “paradosso della moderazione”: se, tradizionalmente, la più parte degli studiosi e dei commentatori ha incorporato il presupposto per cui la democrazia, con il suo naturale portato di inclusione (“inclusion-moderation hypothesis” o “participation-moderation tradeoff”, nella versione di Samuel Huntington), tenderebbe a rendere più moderati e pragmatici i movimenti islamici, ove, di converso, l’oppressione ne favorirebbe la radicalizzazione, Hamid mostra che ciò che di solito accade è proprio il contrario.

Nella misura in cui raggruppamenti come i Fratelli Musulmani in Egitto (o in Giordania) sono molto più che semplici movimenti politici, ma estese organizzazioni sociali che offrono piani di assicurazione sanitaria, previdenziali, prestiti monetari… e lavorano per la trasformazione dell’ordine costituito nel tempo, il loro interesse è, da una parte, quello di evitare lo scontro diretto con i regimi in essere e il conseguente portato di repressione che ne metterebbe a rischio le numerose attività non direttamente politiche, dall’altro, vista l’influenza in particolare degli Stati Uniti nel mondo arabo, quello di accreditarsi internazionalmente come interlocutori credibili negli eventuali processi di democratizzazione. Lavorare alla propria inclusione e, insieme, cucirsi addosso l’etichetta di democratici.

Nel testo vengono ricostruiti con dovizia di dettagli i percorsi di adattamento dei movimenti islamici mainstream soprattuto in Egitto e in Giordania: anche quando attori estremisti hanno impresso un’accelerazione cruenta agli eventi, come Gama‘a Islamiya e al-Jihad – da cui proveniva il numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri – a partire dal 1992, i Fratelli Musulmani hanno sempre cercato di distanziarsene il più possibile e condannato in modo netto il ricorso alla violenza  Hamed Abu Nasr, guida della Fratellanza, affermò a più riprese che “violenza e terrorismo” rappresentavano “una fondamentale deviazione dalla legalità e dalla corretta interpretazione dell’Islam” e che, come tali, non potevano che condurre “a una controproducente polarizzazione” e “minare alla base la stabilità della Umma e la sua sicurezza”.

La moderazione ideologica, però, la moderazione nell’interpretazione del rapporto tra religione e politica, prima di tutto, è un complesso fenomeno tattico che ha interessato in modo precipuo le élite, fino a metterle in contrasto con una “base” – base che, in ogni caso, è stato possibile parzialmente ignorare, data la natura non democratica del contesto di riferimento e l’assenza di competizione per il voto – attestata su posizioni parimenti non violente (la capacità jihadista di mobilitare consenso è normalmente esagerata all’eccesso, soprattutto sui media occidentali), eppure non già moderate,

“Gli Stati laici autoritari sembrano isolare i gruppi islamici, non solo dalla loro propria base, ma anche dal più largo sentimento popolare. La maggior parte dei dati disponibili per l’Egitto e la Giordania (così come per altri paesi arabi) rendono chiaro che queste sono società religiosamente conservatrici, dove la grande maggioranza ritiene che l’Islam e la legge islamica debbano giocare un ruolo centrale nella vita pubblica “.

 

Quanto conservatrici? E con quali tratti specifici? Per rispondere ci vengono in aiuto i sondaggi d’opinione e le ricerche che hanno provato a prendere il polso delle società a forte maggioranza musulmana, come il rapporto Pew del 2013 intitolato The World’s Muslims: Religion, Politics and Society, e i cui risultati sono per la maggior parte di noi abbastanza impressionanti, se guardiamo alla condizione della donna,

 

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a quelli che sono ritenuti essere i suoi diritti,

 

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al ruolo che la sharia dovrebbe rivestire nell’ambito della legislazione ufficiale,

 

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o, ancora, all’importanza assegnata ai giudici religiosi nel dirimere le controversie riguardanti il diritto di famiglia e di proprietà,

 

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Senza contare che in una survey non dissimile, ma di un anno precedente, il 61% degli egiziani diceva di preferire l’Arabia Saudita alla Turchia quale “model of religion in government”.

Qualcosa di più essenziale della mera propaganda e dei finanziamenti wahabiti di cui sempre si parla, per quanto estesi essi possano essere, qualcosa di radicato e profondamente avvertito,

“Lungi dal rappresentare un’aberrazione storica, l’ascesa del salafismo e dei movimenti islamici più in generale, ha dato voce a qualcosa che è sempre stato presente, il genuino desiderio popolare di emulare la purezza religiosa del profeta Mohamed e dei suoi compagni. Nella maggior parte dei paesi arabi, l’unico periodo in cui l’Islam e la legge islamica sbiadirono dalla vita pubblica fu durante l’apice del nazionalismo arabo negli anni ’50 e ’60. Persino in Turchia, dove vi fu uno sforzo senza precedenti, e spesso brutale, per cancellare la religione dalla sfera pubblica sotto il governo di Ataturk, democratici conservatori più ben disposti verso la religione (a cominciare dal Partito Democratico di Adnan Menderes, che fu giustiziato nel 1961 dopo un colpo di stato militare) così come movimenti islamici più ortodossi riemersero rapidamente”.

 

Sullo sfondo della pervasività religiosa e della retorica favorevole a trasformare la legge coranica nel fondamento della legislazione civile, si può capire come Hamid posi l’ultimo tassello del suo paradosso: in quei paesi dove i movimenti islamici sono divenuti compiutamente parte del gioco democratico, come l’Indonesia o il Pakistan, essi hanno più facilmente abbandonato la prudenza e la moderazione caratteristica dei Fratelli Musulmani. Sistemi di governo decentralizzati hanno favorito tale sviluppo: come documentato da Robin Bush, nel vasto arcipelago asiatico, dal sud dell’isola di Sulawesi fino a Java Ovest, è stato spesso un fiorire di ordinanze dalla forte connotazione religiosa, dalla richiesta che i dipendenti pubblici e gli studenti indossassero “abiti musulmani”, all’obbligo per le donne di portare il velo per avere accesso ai servizi pubblici locali, alla necessità di dimostrare la capacità di leggere il Corano per essere ammessi all’università o per ricevere una licenza di matrimonio. E il vasto supporto popolare per simili misure ha pian piano spinto anche partiti storicamente laici come Golkar ad adeguarsi almeno in parte.

Allo stesso modo, nella serie di elezioni che hanno avuto luogo in Egitto dopo le dimissioni di Hosni Mubarak, nel 2011 e nel 2012, per essere competitivi, i partiti non islamici si sono trovati a dover ricorrere al linguaggio della religione, fino a occultare consapevolmente le proprie radici liberali: “nessuno di noi utilizza la parola ‘liberalismo’ perché per le strade egiziane ‘liberalismo’ significa incredulità”, ha ricordato Mustafa al-Naggar, fondatore del Partito della Giustizia. E anche quando nel 2012 si trattò di negoziare una nuova costituzione, su temi come l’articolo 2 – l’inserimento dei principi della sharia quali fonte di legislazione – il dibattito ebbe luogo principalmente tra Fratelli Musulmani e Salafiti, con gli altri movimenti politici a fare sostanzialmente da spettatori,

“in ultima analisi, in un Egitto in via di democratizzazione, nessuno poteva davvero opporsi a sancire l’iscrizione della sharia nella Costituzione; la questione era semmai quanta parte di essa iscrivervi”.

 

“Democratization backwards” è una delle definizioni che sono state date in letteratura a questo fenomeno: poiché si tende a usare la locuzione “democrazia liberale” in modo quasi automatico, capita di dimenticare che liberalismo e democrazia – ne scriveva in un bel saggio del 1986  Norberto Bobbio – non sono la stessa cosa, e che,

a) storicamente, in Occidente il primo ha preceduto la seconda, anzi, ne è stato la logica premessa,

b) in certe circostanze, la seconda potrebbe ben sfociare in una negazione del primo.

Al suo livello più semplice, la democrazia è un sistema politico che assegna il potere in ragione di ciò che grandi gruppi di persone vogliono (nelle parole di un membro dei Fratelli Musulmani, “[…] if the people wanted to ban wine, for example, the government would oblige”). Ma proprio per questo c’è molto più che “free and fair elections” nel costituzionalismo liberalerule of law, separazione dei poteri, protezione della libertà di parola, di assemblea, di religione, dei diritti di proprietà, protezione, insomma, degli individui e delle minoranze. La democrazia, per sé, può anche essere illiberale, in altre parole (“[…] deciding, through democratic means, that they do not want to be liberals”). La differenza tra contesti democratici potenzialmente illiberali di matrice islamica e contesti come quello russo o venezuelano, puntualizza Hamid, sta nel fatto che per questi ultimi l’illiberalità non è legata direttamente all’ideologia di Chávez o di Putin, quanto più un sottoprodotto del desiderio di consolidare il loro potere, mentre per i primi è elemento consustanziale a una credenza totalizzante, non un fatto spiacevole della vita, ma qualcosa cui aspirare.

In questo senso – ed è forse una delle ragioni per cui la comprensione della questione tende a eluderci – la religione non è un mero epifenomeno, una sovrastruttura, un velo sottile che nasconde sotto di sé frustrazione, povertà, risentimento geopolitico… ma qualcosa di molto reale, soprattutto allorquando essa tende ad assumere una valenza politica, caratteristica che rimanda a peculiarità specificamente islamiche.

E’ qui, allora, che la coda dell’analisi può rivolgersi alle società europee, dove, se le survey di opinione condotte tra i musulmani rivelano da una parte orientamenti coerenti con i dati Pew citati in precedenza – forte identificazione della maggioranza con la propria religione e relative prescrizioni, opinione molto negativa circa l’omosessualità e i diritti dei gay, visione favorevole della sharia come base della legislazione dello Stato, convinzione che la blasfemia debba essere legalmente punibile, etc… -, dall’altra indicano egualmente la prevalente avversione per la violenza e il terrorismo. Detto altrimenti, è del tutto possibile, anzi, è normale, per una grossa fetta dei musulmani d’Europa, condannare senza riserve gli attentati contro Charlie Hebdo e ritenere, a un tempo, che le vignette pietra dello scandalo dovrebbero comunque essere vietate perché offensive della sensibilità religiosa, non diversamente da quanto è possibile e normale in Egitto pensare che al-Zawahiri sia un criminale e, nondimeno, auspicare la compenetrazione tra religione e Stato. Questo sembra essere il punto sfuggente nel dibattito delle ultime settimane.

Aldilà delle pur pressanti questioni di sicurezza legate al problema del terrorismo, da un punto di vista culturale e di lungo periodo, tale “clash” se non “of civilization”, certamente “of values”, è tema assai delicato e dai numerosi risvolti concreti, sia quanto alla politica interna, evidentemente, sia quanto a quella estera, nella misura in cui si chiede spesso all’Europa di accompagnare e favorire la democratizzazione dei paesi arabi, in particolare. E’ anche forse il più intrattabile e di più difficile gestione, soprattutto se consideriamo che una porzione non trascurabile di autoctoni, per dir così, è a sua volta ben lontana dal comprendere il vero significato da attribuire all’espressione “laicità dello Stato”, basti guardare alla difficoltà per l’affermazione dei diritti degli omosessuali in Italia o al tentativo di rispondere alla presunta minaccia islamica ri-confessionalizzando scuole e istituzioni e altre consimili amenità illiberali. Difficile, perché se, per i più di noi, le caricature di Maometto generano al massimo indifferenza, diverso è quando la satira feroce o, perché no, l’odio stesso, si fanno omofobi, sessisti, antisemiti, e allora le nostre riserve di tolleranza diventano improvvisamente esigue, la tentazione incoerente di trattare casi simili in modo diverso emerge. Difficile, perché ci interroga sui confini dell’opzione liberale, sulla possibilità di convivere con minoranze illiberali e, perché no, sul rischio che un giorno possano non essere più solo minoranze; perché, citando un’ultima volta Hamid, ci pone una domanda cruciale per la fabbrica stessa della società,

“Can someone be illiberal and also be a good citizen?”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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