Costume

Non tutto è blackface

29 Agosto 2020

Sta facendo molto discutere il post di tre giorni fa di Luigi Di Maio in cui il Ministro ha pubblicato una serie di fotomontaggi nati sul web, che ironizzano sull’abbronzatura da lui mostrata recentemente in un incontro pubblico.

In particolare, in molti hanno avanzato l’accusa di blackface, un termine che non dirà molto alla gran parte dell’opinione pubblica italiana, ma che fa riferimento a una pratica razzista molto diffusa negli Stati Uniti, soprattutto nella prima metà dell’Ottocento. Come succede praticamente ogni volta che in Italia (e non solo) si parla del tema, l’accusa di razzismo appare a molti eccessiva, se non addirittura assurda.

Qualche tempo fa, Il Post ha pubblicato un pezzo molto esauriente sul tema, che vale la pena riprendere per avanzare una definizione del fenomeno:

Il “blackface” nacque negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, e per quasi un secolo fu una diffusa forma di intrattenimento tipica degli spettacoli dei “menestrelli”, nei quali degli attori – prevalentemente bianchi – interpretavano degli schiavi africani liberati, esibendo tutto il repertorio di luoghi comuni sulle popolazioni autoctone dell’Africa e rappresentando gli schiavi alla stregua di animali da zoo. Queste rappresentazioni caricaturali, che ridicolizzavano gli schiavi e li identificavano con pochi tratti, spesso esagerati o inventati, ebbero un’influenza notevole sul modo in cui vennero considerati gli afroamericani nei decenni successivi. Furono gli spettacoli in “blackface” che costruirono il mito dell’africano pigro, superstizioso, pavido e buffone, che durò molto a lungo nella cultura popolare americana e che fu riproposto per esempio da molti cartoni animati della prima metà del Novecento.

Come si può vedere, emergono tre caratteristiche:

1) Il blackface nasce nell’industria dell’intrattenimento; ovviamente, ciò non vuol dire che debba rimanere confinato in quel settore, ma la sua origine in qualche modo viene conservata anche nelle manifestazioni più diverse di questa pratica, dato che il carattere discriminatorio sta proprio nell’usare la faccia nera per divertire.
2) Il blackface consiste in persone bianche che si fingono persone nere a fini d’intrattenimento, talvolta anche in situazioni in cui si sarebbe potuto assegnare questo compito a persone davvero nere (perché devo far interpretare il ruolo di un africano a un bianco)?
3) Il blackface nasce come pratica dei bianchi che propone, alimenta e diffonde luoghi comuni e stereotipi sulla comunità afroamericana, che in qualche modo confermano e diffondono la visione che ne hanno i bianchi stessi. Come spesso accade quando si parla di stereotipi, si tratta di qualcosa che si consolida nell’immaginario e nell’inconscio, e quindi il carattere intenzionale del blackface non è necessario: posso veicolare stereotipi razzisti anche se non ne ho l’intenzione e/o la consapevolezza, e anzi una parte considerevole delle riflessioni antirazziste consiste proprio nel portare alla luce questi stereotipi inconsci.

In realtà, c’è un aspetto che spesso rimane taciuto o accettato senza problematizzarlo, ma che andrebbe messo in luce per poter capire meglio dove risiede il carattere razzista del fenomeno: quando si parla di blackface si dovrebbe tenere bene a mente anche la sua origine statunitense. È in quella società che il razzismo sistemico ha permesso la nascita e la diffusione del blackface, ed è in quel contesto che la pratica acquista un chiaro significato discriminante. Ovviamente, ciò non toglie la possibilità che si diano casi di blackface anche altrove: il razzismo, anche quello sistemico, non è appannaggio degli Stati Uniti. Ma il razzismo non è mai del tutto omogeneo: quello statunitense, nato dallo schiavismo, è diverso da quello italiano, ad esempio, che ha origine nel passato coloniale e nelle leggi razziali del Ventennio. Comportamenti ugualmente razzisti possono essere alimentati da stereotipi diversi, da condizioni storiche e sociali molto differenti. Poiché ogni pratica nasce in un determinato contesto sociale, storico e geografico che le attribuisce senso, non è automatico che, una volta uscita da esso, conservi lo stesso significato e la stessa leggibilità. Del resto, questo è esattamente il motivo per cui, spesso, quando in Italia e in Europa qualcuno accusa qualcun’altro di blackface, si sente rispondere che non c’era un intento razzista. Negli scorsi anni, in Italia, il programma Tale e Quale Show, dove personaggi famosi si esibiscono imitando cantanti celebri, è stato accusato di blackface, dato che diversi concorrenti si sono dipinti il volto per interpretare artisti neri. Si tratta in effetti di un caso piuttosto classico: a fini di intrattenimento, dei bianchi hanno interpretato dei neri. Anche se non c’era un intento palesemente derisorio, ci si può chiedere come mai non siano stati chiamati concorrenti neri, o perché non si sia deciso di far esibire gli ospiti senza pitturar loro il volto. Se questi episodi ricordano più facilmente il blackface, in altri le accuse sembrano più forzate: tra i tanti, prendiamo il caso del calciatore Antoine Griezmann, francese, che a una festa anni ’80 ha deciso di vestirsi come un giocatore di basket degli Harlem Globetrotters e si è dipinto il corpo di nero, e dopo aver postato la foto sui social si è visto accusare di razzismo, scusandosi poco dopo per il gesto ma negando di aver voluto diffondere stereotipi sui neri.

Al di là dell’opinione personale che ne possiamo avere, un caso del genere mostra chiaramente come, fuori dal contesto americano, il carattere offensivo del blackface perde la sua riconoscibilità immediata, al punto da venire fortemente ridimensionato e forse, in casi specifici, persino eliminato. Del resto il blackface è, appunto, una pratica con una precisa origine e funzione, che persone dall’altra parte del mondo possono anche ignorare del tutto, e pertanto è difficile sostenere che se queste si dipingono il volto di nero stanno richiamandosi a una pratica che nemmeno conoscono (e la riprova è il fatto che in Italia bisogna spiegare in cosa consista, questa pratica). È riduttivo definire il blackface come il tingersi la faccia di nero: occorre che questo sia fatto per divertire, e che questo alimenti (coscientemente o meno) stereotipi. Il razzismo ha sempre una radice storica e sociale, oltre che culturale, per cui variando contesto non è detto che esso si riproponga nelle stesse forme. Come scrive Il Post, il blackface rappresentava gli afroamericani “alla stregua di animali da zoo”: se gli stereotipi sono evidenti in casi italiani come il film di Totò Tototruffa ’62 o in un’esibizione del comico Dado palesemente razzista, in altri episodi questa visione non sembra rintracciabile.

Un caso eclatante in tal senso è quello del pizzaiolo napoletano Gino Sorbillo, che dopo gli insulti razzisti ricevuti dal calciatore (nero) del Napoli Kalidou Koulibaly, francese con origini senegalesi, si è dipinto la faccia di nero postandola sui social con la frase “Siamo tutti Koulibaly”. Anche in quel caso, sono fioccato le accuse di razzismo. Tuttavia, non si può non notare come ciò che fatto Sorbillo sia stato, anzi, manifestare solidarietà al calciatore, ed è quantomeno problematico accusarlo invece di alimentare il razzismo. Certo, l’obiezione classica sarà che dipingersi la faccia di nero alimenta, di per sé, stereotipi razzisti, ma ci si potrebbe domandare se questo “di per sé” sia valido in un contesto non-americano e in un caso dove il volto dipinto non era inteso né per intrattenere né per divertire.

È chiaro che un’analisi caso per caso diventa fondamentale, se non ci si vuole trasformare in censori di atti e comportamenti anche quando questi non hanno una vera e propria continuità con la pratica razzista del blackface. Il rischio infatti è di finire a leggere ogni caso nostrano con schemi altrui. Smascherare il razzismo, anche inconsapevole, è fondamentale, ma è altrettanto importante mettere in luce i caratteri specifici di cui questo si compone in contesti differenti, senza omologare situazioni diverse tra loro, creando di fatto un’ortodossia che sacrifica il piano storico-sociale sull’altare di un armamentario concettuale che non è detto vada bene per ogni situazione.

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