Società
Nel tempo del rancore
La notte del 7 marzo 2020 – a poche ore dall’inizio del lockdown in Lombardia e 48 ore prima che Giuseppe Conte annunci ufficialmente che l’ingresso di tutto il Paese in quella condizione (l’annuncio sarà il 9 marzo con una diretta tv) varando lo slogan «Io resto a casa» – l’ultimo treno in partenza da Milano verso il Sud si trasforma in una controfigura dell’esodo con cui abbiamo spesso raccontato la storia del secondo sviluppo industriale.
Questa volta non si va a Nord per cercare fortuna, ma si torna a Sud pensando di salvarsela.
Scrive Jaime D’Alessandro che quella scena non racconta nulla della pandemia ma è espressiva di un altro contagio: “la capacità di diffondersi di una narrativa a tutti nota, nel casi specifico quella dell’italiano egoista e privo di senso civico, qui applicata a un fatto nuovo” [p. 46].
Quel dato tuttavia non è solo, insiste D’Alessandro, il perpetuarsi di un codice culturale, è anche il registratore di un dato d’epoca in cui diamo più credito alle notizie pessimistiche che a quelle ottimistiche e in cui la dimensione complottista Dimensione che ha un fondamento nel nostro tempo presente. Ma anche che ha un fondamento nel codice culturale che è radicato nelle forme e nelle modalità in cui si produce crisi politica nel secondo Novecento, meglio: nel tempo della messa in crisi delle forme di rappresentanza di massa del Ventesimo secolo.
È dalla fine degli anni che si immaginano responsabilità attribuibili a nemici immaginari del genere umano: in passato rappresentati da massoni, gesuiti, giudei o bolscevichi e ora sostituiti da finanzieri, capitalisti, imperialisti neoliberali.
La parola complotto così torna a popolare il nostro vocabolario pubblico nello stesso momento in cui finisce il sistema del partito politico di massa.
Non è solo un problema di istituzione, ma è soprattutto è un problema di canali attraverso i quali si costruisce opinione diffusa.
Se il sistema del partito politico di massa prevedeva e includeva una forma della costruzione dell’opinione basata sul principio della discussione pubblica, del confronto tra ipotesi diverse e in conflitto, quella crisi di forma, che non è stata sostituita da altre realtà. Ad essa si è, invece, è sovrapposta la forma movimento come istanza autentica perché “priva di mediazione”.
Quel vissuto ha accreditato un veicolo della riflessione e della costruzione di sapere che non si accredita col confronto, bensì come la «rivelazione», che poi produce «condanna morale» fino ad una vera e propria ideologia o mitologia del complotto stesso.
“Il motore dei ragionamenti complottisti ha scritto di recente Jean-Pierre Taguieff in Complottismo, un saggio che per molti aspetti si intreccia con le questioni che pone D’Alessandro – è l’insoddisfazione profonda provata nei confronti del mondo così com’è diventato, così come la delusione o la contrarietà provocate dalle spiegazioni ufficiali che si trovano nei media o nelle comunicazioni dei governanti per gli eventi respingenti. (p. 64)
«L’insoddisfazione profonda provata nei confronti del mondo così com’è diventato» è forse la figura profonda che mette a tema D’Alessandro in questo suo libro. In mezzo c’è la sensazione di non avere un futuro; la percezione della deemencipazione (economica, lavorativa, di mansioni dunque di competenze, …) che caratterizza la condizione di una classe media sempre più immiserita. Una condizione che aumenta l’attrattiva verso una ricerca di protezione, vive le sfide della globalizzazione come minaccia, avverte le scadenze di decisione come un doppio registro: riprendersi il controllo del proprio mondo (il che appunto legittima e la mentalità complottista mentre allo stesso tempo la produce) e costruirsi una nostalgia di passato, o di culto delle proprie origini, che si nutre soprattutto di rancore, forse il sentimento più diffuso, radicato e generativo di questo nostro tempo.
In quel rancore non c’è solo che cosa non abbiamo più, ma soprattutto che cosa ci è stato sottratto (qui ritorna il sospetto sulla matrice del com’lotto legittimato o veicolato attraverso il «distanziamento» ovvero ciò che sarebbe accaduto nel tempo in cui siamo stati «chiusi in casa») e che cosa dobbiamo pretendere che ci sia ridato.
Quella che manca sostiene D’Alessandro è una bussola, un «manuale di sopravvivenza» che ci permetta di navigare in quel che ci aspetta che continuiamo a non prendere in carica, o che ci rifiutiamo di considerare (su tutto il complesso problema della sostenibilità e della radicale trasformazione e rifondazione di stili di vita individuali e collettivi).
Anche per questo il rancore è una carta politica facilmente sfruttabile e di facile successo. Sicuramente non ci garantisce dal ritrovarsi ancora sopresi e arrabbiati per ciò che accadrà. Ma per questo abbiamo già la medicina: Complotto! Molti grideranno.
È la corsa del criceto, a far girare la ruota sempre sullo stesso percorso, con l’illusione di raggiugere una méta, ma in realtà stando sempre sullo stesso punto è forse la scena che più descrive la nostra condizione. Il fondamento del rancore è nel misurare contemporaneamente la spossatezza della corsa e l’assoluto immobilismo.
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