Società
Navi, profughi e ricorsi storici: cosa ci insegna la memoria di un esodo
Nella marzo del 1947 mio padre Ennio, mia nonna Linci (soprannome di origine misteriosa; nome originale: Zora, italianizzato malamente dall’anagrafe fascista nel mai usato “Albina”) e mio nonno Ezio sbarcarono a Venezia dal piroscafo Toscana, provenienti dalla loro Pola. Il nonno era appena tornato dal campo in Polonia, dopo un lunghissimo viaggio attraverso la Russia e l’est Europa che ricorda molto quello raccontato da Primo Levi ne “La tregua”. In una decina di viaggi il Toscana percorse una sorta di “corridoio umanitario” permettendo l’esodo da Pola a circa 28.000 persone su un totale di 32.000 abitanti della città. Fuggivano da una terra che era stata travolta da una guerra di inaudita ferocia, che aveva visto opporsi le milizie naziste (affiancate dai fascisti di Salò e dagli Ustascia, i fascisti croati) ai partigiani di Tito (tra i quali molti erano serbi, ma non mancavano sloveni, croati e italiani – in particolare soldati che l’8 settembre avevano scelto di unirsi ai partigiani). In Istria e Dalmazia, e in particolare a Pola, città storicamente mista (sotto l’Austria era stata la base della flotta imperiale, vi convivevano cittadini di lingua italiana, croata e tedesca) il conflitto assunse presto il volto odioso della guerra civile. Faccio solo l’esempio di ciò che avvenne nella mia famiglia. Tra i Dobrich, il ramo croato della mia famiglia, uno zio di mio padre fu ucciso dai fascisti repubblichini, un altro scomparve (probabilmente infoibato) per mano dei partigiani. Tutti e due lavoravano al cantiere navale di Pola; eguale era l’accusa, da una parte e dall’altra: collaborazione col nemico.
Non deve quindi sorprendere che, a guerra terminata, da Istria e Dalmazia – come da tutte le regioni a est delle nuove frontiere orientali europee – si creasse un esodo verso occidente. In varie ondate lasciarono Istria e Dalmazia 250.000 persone. Per tutti o quasi la prima destinazione fu l’Italia, ma solo una parte di questi profughi (poco più della metà) vi si stabilì. Per gli altri la destinazione furono soprattutto gli Stati Uniti (come accadde ai genitori di un famoso chef dalla buffa parlata), il Canada (vi emigrarono i genitori di un notissimo capo d’impresa automobilistica) e l’Australia, grazie alla politica di accoglienza di questi paesi, dettata sia da ragioni di opportunità politica (accogliere le “vittime del comunismo”, soprattutto se giovani e abili al lavoro) che da una economia in rapida crescita. Facendo qualche ricerca per questo articolo ho appreso che il piroscafo Toscana, dopo aver trasportato i profughi in Italia nel 1947, un paio d’anni dopo fu destinato alla rotta Trieste-Perth per trasportare molte migliaia dei medesimi profughi, che avevano ottenuto il permesso di soggiorno in Australia.
Quei profughi partiti nel 1947 in Istria e Dalmazia lasciavano letteralmente tutto: i loro beni, il loro lavoro, molti loro affetti, la memoria della loro famiglia.
Così anche i miei nonni, che furono però tra quelli più fortunati, perché ebbero subito ospitalità da parenti già residenti appena al di là della nuova frontiera, a Monfalcone, dove mio padre poté continuare il liceo. E dove incontrò mia madre, che aveva anch’essa provato, bambina, la migrazione, lei per sfuggire ai pericoli che l’introduzione delle leggi razziali fasciste fecero presagire.
Per molte migliaia di esuli istriani e dalmati il destino fu diverso: prima passarono per il centro di smistamento di via Pradamano a Udine (una sorta di Ellis Island giuliano-dalmata), per poi essere destinati a 109 campi profughi disseminati in tutta Italia. In genere ex caserme o di villaggi di baracche appositamente realizzati, ma furono riutilizzati anche ex campi di concentramento come Fossoli o come la Risiera di San Sabba a Trieste, che i nazisti avevano usato come campo non solo di transito, ma anche di annientamento. La permanenza dei profughi nei campi fu spesso molto lunga. Ancora nel 1963 erano attivi 15 campi che ospitavano 9000 profughi: già allora l’Italia dimostrava gravi difficoltà nella gestione dell’accoglienza a chi fuggiva dai disastri creati dalla guerra. Pur trattandosi, in questo caso, di propri compatrioti.
Nel 1955 mia madre, giovane pediatra del Burlo Garofolo di Trieste, ebbe in cura i bambini del Campo Raccolta Profughi di Padriciano, situato a pochi chilometri dal suo ospedale.
Mia madre ricorda la lotta dei medici contro la mortalità infantile nel campo, dovuta alle frequenti epidemie favorite dalle mediocri condizioni igieniche del campo, dove le latrine erano in un edificio comune tra tutti e le baracche progettate per il terremoto di Messina del 1908 (traggo queste ultime notizie dal bel sito www.padriciano.org).
Se sommiamo ai profughi istriani e dalmati gli italiani rientrati dalle ex colonie (e anche di loro meriterebbe parlare) possiamo stimare che, complessivamente, tra il 1946 e il 1954 l’Italia ha accolto quasi mezzo milione di suoi cittadini profughi.
Per confronto la Germania ha accolto nel primo dopoguerra quasi 10 milioni di profughi, in gran parte espulsi dalle nazioni dell’Est Europa (paradosso della Storia: si tratta delle stesse nazioni che oggi così strenuamente vorrebbero impedire il transito sul loro territorio ai rifugiati in fuga verso la Germania e altri paesi del Nord Europa).
In buona parte delle famiglie tedesche vi è quindi memoria di un parente, più o meno prossimo, coinvolto nella grande migrazione da est a ovest dell’immediato dopoguerra (compresa Angela Merkel i cui nonni materni erano tedeschi della Prussia Orientale, passata alla Polonia nel 1945).
Certo, la memoria degli esodi del passato non risolve da sola i molti interrogativi che ci pongono gli esodi del presente. Ci può aiutare a riflettere su diverse dimensioni dell’accoglienza, a partire dall’accoglienza come dovere (morale o religioso che sia) e come opportunità di integrare nella società nuove idee, nuove culture e nuovi talenti.
Chi sono questi signori ritratti qui sotto? Alcuni dei profughi provenienti da Istria e Dalmazia. Alcuni di loro hanno reso l’Italia più colta, altri più allegra. Tutti la hanno resa più ricca, in un senso o nell’altro.
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