Società
Mondragone, tra Berkoff e Genet la rabbia degli ultimi
“Mondragone è nostra!”. Lo slogan è un urlo che agita la rivolta contro l’altro, l’untore del nuovo focolaio di Covid esploso nella città di trentamila anime sulla Domiziana, non molto distante dal Lazio, in Campania. Sedie che volano dai palazzi, pietre contro le finestre. Un furgone è fatto a pezzi e la targa esibita come un trofeo. Cortei e minacce a un pugno di braccianti bulgari, una comunità impaurita che abita dentro le fatiscenti palazzine ex Cirio, in condizioni di promiscuità e precarie condizioni igieniche. E’ qui che sono stati riscontrati casi di positività al coronavirus. Ma la fame è più forte della paura e alcuni braccianti nottetempo disertano la quarantena per andare a lavorare nei campi per pochi euro. E poi la manifestazione per chiedere attenzione pubblica sul loro sfruttamento. Sono le scintille, della protesta dei mondragonesi, allarmati anche da un rischio di contagio che rischia di investire tutti. Ma pure l’occasione per dare la stura ad avversioni e diffidenze a lungo malcelate diventate il vero motore della rabbia di chi ha preso d’assedio quelle palazzine. Lo scontro è a distanza e viene evitato solo per l’intervento della forza pubblica che si interpone tra i manifestanti e le case. Mondragone, periferia d’Italia svela il cuore nero di un Paese. Qual è la miscela incendiaria che potrebbe portare a un passo dalla tragedia? Luigi Morra, originario di queste parti, teatrante impegnato in una scena che si confronta, sin dalla nascita della compagnia Etérnit, con la storia e le contraddizioni di questo difficile territorio, è abituato a identificare le situazioni di malessere e disagio che vengono da lontano.
“Mondragone è nostra” (sottotesto: non “vostra”). L’appartenenza è una materia complessa, e su alcuni territori una materia fangosa. Dove sono cresciuto, per identificare una persona ci si chiede “a chi appartiene?”, nel senso di discendenza familiare. Per definire, invece, qualcuno che ha legami di parentela con un esponente malavitoso, si usa dire “quello appartiene”, come a dire “è parente di chi comanda”. Sai, quando uno dice “meglio che lo lasci stare, quello appartiene”. Se appartieni, lo dice la stessa parola, sei di proprietà di qualcuno. Quando sento “Mondragone è nostra” penso inevitabilmente a quel qualcuno. Se questo slogan impazza nella rivolta contro il ghetto dei palazzi Cirio e contro chi vive in quei disagi, e fuoriesce dalle urla frustrate di chi ha fatto sempre fatica ad attaccare l’oppressore locale, quello che si muove tra camorra, mala politica, impiccio, faccio fatica ad identificare in questo una rivolta. Se la rivalsa è liberarsi, i padroni li abbiamo conosciuti. No, non sono Bulgari, non sono Rom”.
Mondragone periferia dell’inferno? A pochi chilometri da luoghi tristemente famosi come Villa Literno e Castel Volturno per sfruttamento massiccio di immigrati, caporalato e bidonville, terre dei fuochi, inquinamento e malavita questo è da sempre una sorta di luogo-non luogo. Non è Napoli, non è Caserta. Costretta nel limbo, una cittadina senza una storia di sviluppo. E ora il conflitto tra ultimi che rivela un popolo di invisibili utili al lavoro nei campi per pochi euro diventati parafulmini delle proprie angosce di comunità senza una bussola, impaurita dall’incertezza del domani. Cosa rischia di diventare questa miscela?
“Le questioni sono più quelle della provincia che quelle della periferia. Mondragone è parte di una provincia e di un litorale disgregato. Territori vicini, vicinissimi, che però vivono complessità diverse tra loro. Una matrice comune che ha fatto i conti con le singolari sfumature culturali e geografiche. Nel 2009 usciva “Terre in disordine”, volume a cura di Maurizio Braucci e Stefano Laffi, edito da Minimum Fax, al quale ebbi il piacere di collaborare nel capitolo dedicato alla via Domiziana. In copertina c’è una frase di una donna immigrata a Castel Volturno che dice “Tutti a dire che questa è la terra di nessuno… e invece è la terra di tutti”. Di fatto Castel Volturno, dove è morta Miriam Makeba, è un territorio che ha una storia importante di multiculturalità, lunga, snodata su un serpente di strada che cambia sembianze ad ogni chilometro, dalle bufale nelle campagne fino a quello che resta del Villaggio Coppola, che un tempo ospitava gli americani della Nato e oggi è un luogo pazzesco, diventato anche set in “Dogman” di Matteo Garrone. Mondragone, più circoscritta, più “ci sappiamo tutti quanti”, vive invece esattamente quella dimensione di metà città, metà paese, metà Napoli metà Caserta, metà mare, metà montagna… un luogo a metà. Sono posti potenti, molto potenti, ma disgraziati. Il rischio credo sia sempre nella mancanza di immaginare spazi altri, possibili canali, visioni. Se non ci stacchiamo, se non ci mettiamo in discussione, provando innanzitutto a rivedere noi stessi, i nostri nuclei più vicini, se temiamo il diverso rischiamo di temere anche un modo diverso. Un modo diverso anche di guardare la bellezza. Va benissimo amare il mare, le dune, ma senza sottovalutare l’amore necessario per chi nel mare annega e tra le dune si perde”.
C’è stato un tempo in cui tutto questo non accadeva. Dove a mantenere un controllo del territorio era la camorra. Dove i ragazzi in un misto tra passato e presente metropolitano si sfidavano tra gang a fare a mazzate. A prendersi a colpi come epici guerrieri in erba. Tutto questo è raccontato in “TVATT” (Ti Batto) potente atto unico, liberamente ispirato a “East” e “West” di Steven Berkoff che la compagnia Etérnit ha prodotto insieme alla compagnia Teatraltro. Una fotografia senza indulgenze di una realtà sotterranea di violenza. Da allora a oggi sono passati pochi anni eppure la sensazione è che sia quasi un lustro. Come è cambiata da queste parti la grana dei rapporti interpersonali, il modo di vivere, soprattutto dei giovani?
“Ho letto sui social post e commenti che trapelano la necessità di ritorno a un sistema di controllo, un sistema prepotente. Ho letto “venti anni fa non sarebbe successo” … carpire il riferimento non è difficile. Le mazzate sono un aspetto altro, esistevano ed esistono. “TVATT” affonda in un immaginario che abbiamo attraversato, ma che per molti versi è ancora presente. Una faccenda dove, come in uno spettacolo, nel tempo possono cambiare le scene, gli attori, le dinamiche, poi le questioni restano. Le mazzate assumono in “TVATT” l’esasperazione di un’energia che non trova altre vie, una creatività nel disastro, lo show del conflitto. Non succede solo lì e non succede solo in “TVATT”. Quando guardo “Arancia Meccanica”, in quel manierismo estetico di “ultraviolenza” magistralmente immaginato da Stanley Kubrick, non posso fare a meno di notare il contrasto con le rovine del comprensorio e del quartiere che ospita Alex, famiglia, amici. Credo che, in fondo, trasformiamo quello che abbiamo: gli spazi che abitiamo ci danno una serie di strumenti. Non è una storia facile, io poi ho trovato il teatro per una serie di circostanze, alcune anche fortuite magari. Ho iniziato a studiarlo a Roma, dove adesso vivo. Città piena di casini, diversi, ma comunque casini. Resta un ponte con il mio territorio di origine, ad oggi costante anche in molti dei miei lavori. Sui giovani non lo so ancora, mi piace ascoltarlo il mondo di quelli più piccoli di me, spero di non cadere mai nella retorica di dovergli a tutti i costi insegnare qualcosa. Chi viene dopo deve discutere un modello precedente, altrimenti è finita. Parlo con mia sorella spesso, ha 18 anni e vive lì, la vedo lucida sulle questioni, studia lingue e mi ha aiutato a tradurre i sottotitoli del docufilm su “TVATT””.
Una volta non era così. Alla ricerca delle cause. In “TVATT”, un attore si rivolge al pubblico e racconta come un padre raccontasse a un figlio che una volta non era così: “I soldi erano soldi, e se faticavi guadagnavi veramente. “Una volta non era così” …. Disse questo padre a questo figlio. Una volta il mare era il mare. E a riva potevi fare le telline con le mani e poi mangiarle. Mica comme mo’. I pesci ti camminavano in mezzo ai piedi, tutti assieme. E allo stesso modo la gente camminava in mezzo alla strada nei quartieri vicino al mare. Tutti assieme. Mica comme mò? Quando camminavi, camminavi. Eravamo tutti amici. L’amicizia era l’amicizia. Sì, succedevano anche allora cose del genere. Ma era diverso. Mica comme mo’. “In che senso?” chiese il figlio “Oggi se cammini non cammini? I soldi? I soldi oggi non sono i soldi anche oggi? L’amicizia non è uguale?” É diverso. É proprio una questione che una volta era diverso. Eravamo noi non erano ancora arrivati tutti questi. “Questi chi?” chiese il figlio. “I forestieri? I bagnanti?” Una volta era diverso a papà. Basta”. Ma cos’era diverso rispetto a oggi? E chi sono “Questi qui”?
“Si. Può sembrare paradossale, ma ho la sensazione che spesso crescendo ci si deresponsabilizza. Forse il timore di chiudere male il resoconto. Si tende a spostare su chi arriva dopo, come se il dopo non fosse il risultato di un tuo processo. Ci si vuole convincere che era diverso, era meglio, e ancora una volta la colpa diventa di qualcun altro, di “tutti questi”, gli altri, quelli che arrivano, quelli che non vuoi neanche conoscere, per non correre il rischio di sentirti chiamato in causa. Mi interessa questo binomio tra chi arriva da lontano e chi arriva dopo di te, a tratti è la stessa cosa. Inoltre, risse e forestieri sono storia vecchia a Mondragone: le estati degli anni Novanta scottavano di mazzate, il turista napoletano era sempre nel torto, doveva prenderle, a prescindere”.
Ancora da “TVATT”. Siamo alle battute finali dello spettacolo teatrale, ed è un po’ come una sorta di anteprima per quello che accadrà nella cittadina, davanti a quel gruppo di palazzi abitati da bulgari e rom dove si è accesa la rabbia di manipoli al grido di “Mondragone nostra”. “…La verità è che sono profondamente solo. La verità è che lotto per non sentirmi ridicolo. Ogni giorno. Ogni sera. Ogni notte. Sempre io e me, da solo e incazzato. La verità è che ho una grandissima invidia degli altri. Ogni giorno. Ogni sera…”. Un giorno arriva così, netta, la sensazione di essere abbandonato. Dallo Stato, dalla collettività del Paese dove vivi. E allora che succede? Entri nel flusso di una rivolta contro un nemico che è più debole di te, più fragile. Senza rendersene conto strumento e motore di un odio che conduce alla jacquerie come si è sfiorato a Mondragone. Dove poi è arrivato l’esercito a tenere il controllo della zona rossa, sono partiti gli screening in massa con i tamponi e le analisi sierologiche per circoscrivere il contagio ma la tensione resta alta con i sovranisti pronti ad aggiungere benzina sul fuoco.
“Vero. Ti perdi, sei solo, senti che siamo divisi. La dimensione collettiva trova sfogo solo nel lamento, per il resto sei impegnato a risolvere “la cosa tua”. Ricordi gli anni dell’emergenza rifiuti? Il problema finiva al confine del tuo cortile, se era pulito fuori casa tua tutto apposto. Qualcuno approfittava dei cumuli di sacchi per liberarsi di cose impensabili. Ancora oggi, qualcuno di nascosto sversa e brucia dove è spazio comune, come se non fosse suo. Rispetto a questi giorni la tensione si fa certamente sempre più alta e ovviamente c’è chi aggiunge benzina, immagina che ora c’è una kermesse e il tema è la “divisione” che fai non lo inviti il più bravo d’Italia come ospite?”
Il teatro è quasi sempre specchio dei tempi. Racconta e talvolta precede gli accadimenti di una comunità. Dopo “TVATT”, finestra sulle pulsioni e il malessere di un territorio lasciato a sé è la volta di “NEGRI spettacolo per bianchi” ultimo lavoro di Luigi Morra dove a fuoco è il tema della distanza sociale, l’incomunicabilità e il razzismo. Opera ispirata anche a “Negres” di Jean Genet. Che parla di “Uno de Chist”, cioè “uno di questi” o coloro che negli ultimi anni sull’onda delle migrazioni sono arrivati lungo questo litorale e ridotti a nuova schiavitù. Invisibili comodi per il caporalato che da sempre organizza il lavoro nei campi, nella indifferenza quasi di chi dovrebbe spezzarne logica e appoggi. Ma anche dei cittadini qualunque che fanno finta di non vedere, non sapere dei loro conterranei che affittano case e appartamenti in nero dove si ammassa un popolo senza giustizia e senza diritti. Salvo poi vederli come nemici che potrebbero mettere in pericolo il lavoro e l’esistenza. Ed è ancora una volta, l’atto teatrale una incisione nella carne di un territorio in cerca di riscatto.
“Nell’agosto del 2018 proponemmo una residenza creativa nell’ambito di Lunarte, festival che si tiene a Carinola, a pochi chilometri da Mondragone, da oltre 10 anni; lo stesso contesto dove è nato anche “TVATT”. In questa residenza abbiamo coinvolto Ebrima Badje, un ragazzo senegalese arrivato in Italia qualche anno fa che ora fa il mediatore culturale e vive a Carinola. Gli piace stare lì, la dimensione piccola del paese gli ricorda quella del suo villaggio nel Casamance. Ebrima, detto Ibra, è il performer protagonista di “NEGRI spettacolo per bianchi”. In questi territori, per capire quanto le economie gravano sull’Africa e su altre parti del mondo, non è necessario analizzare il bilancio delle multinazionali, basta vedere il prezzo dei pomodori del contadino”.
“NEGRI spettacolo per bianchi” è un’opera anche assai complessa. Non è solo palcoscenico e azione teatrale ma anche sintesi composita di diversi linguaggi che, come racconta la storia di questo gruppo, unendo video e musica originale, spesso eseguita dal vivo, punta a costruire un evento dove le collaborazioni con altri artisti, da Pasquale Passaretti, Eduardo Ricciardelli, Domenico Catano e i Camera sono il fulcro di un continuo interscambio di idee ( vedi il video https://youtu.be/UAPHu_y9ITY).
“Complessa, si. Per me è necessario che sia un’opera difficile. Il fatto che sto parlando di bianchi e di neri, nel 2020, mi imbarazza, e questo imbarazzo sento di volerlo condividere. Voglio sia difficile come l’argomento trattato, e che si muova in direzioni diverse come i flussi migratori, e che rischi continuamente di affondare, come un barcone in mezzo al mare. “TVATT” rappresenta il risultato di un processo di gruppo importante, con Pasquale, Eduardo, i Camera, Domenico Catano che ha anche realizzato il docufilm da poco pubblicato online. Su “NEGRI” siamo in relazione nonostante non tutti nel cast artistico, Pasquale è il direttore artistico di Lunarte, realtà coinvolta nella produzione del lavoro, con Eduardo è sempre un confronto, le musiche sono dei Camera e Domenico è coinvolto nel lavoro video. In scena con Ibra c’è anche Alessandra Masi. In questi giorni una serie di video montati durante il lockdown. Il gruppo di lavoro dei progetti legati al nostro collettivo coinvolge diversi artisti che vivono quei territori, dove molti di loro sono impegnati anche in altri percorsi culturali, sociali, politici”.
Come se ne esce da questa storia nera che potrebbe anticipare altre Mondragone?
“Tu dici “altre Mondragone”… certo, in giro per il mondo è un momento caldo. Affermo una cosa ovvia se dico che stare chiusi ha esasperato le differenze e fatto esplodere questioni che insistono da tempo: ma pare sia così. L’episodio è un apice, una bomba che diventa innanzitutto motivo di allargare riflessioni e confronti e affinare lo sguardo. Io te, per esempio, siamo qui ad approfondire la cosa, a scavare, è un fatto. C’è un certo timore rispetto alla narrazione di tutto questo, io credo invece che è buono dissotterrare un po’ di monnezza e metterla allo scoperto per cercare relazioni, dentro e fuori, allargare, aprire, appunto. Molte persone con cui ho collaborato nel tempo sono passate per Mondragone, alcuni ne conoscono grazie e rovine; quando abbiamo fatto “TVATT” la sala era piena, una risposta forte. Respirare il fermento e osare insieme a quelle realtà e quelle sensibilità che attraversano o vivono il territorio con la necessità di tentare altre strade, altre visioni”.
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