Società
MMA: facile lo stigma, ma c’è una complessità da capire
I tragici fatti di Colleferro sono stati accompagnati da un improvviso interesse per le cosiddette Mixed Martial Arts, complice un’informazione che ha affrontato in maniera approssimativa la questione delle arti marziali e il loro valore reale e simbolico.
Esiste un piano fattuale, che riguarda le comprovate relazioni pericolose tra il mondo delle palestre in cui si praticano discipline marziali, le tifoserie ultrà, la criminalità organizzata: quali sono e come si articolano i legami tra il sottobosco di questi mondi apparentemente marginali, come si insinuano e poi crescono i nuclei criminali, trovando spazio nelle palestre della provincia o delle grandi città, quali sono i bacini dove la criminalità recluta i propri affiliati sono temi oggetto di inchieste. Analizzate in maniera organica, restituiscono un affresco puntuale di una rete diffusa e strutturata, che fornisce manovalanza e introiti per le mafie e trova negli ambienti dell’estrema destra e delle tifoserie un luogo fertile e accogliente.
Quello su cui vorrei però spostare l’attenzione è il piano iconografico che riguarda l’immaginario del “fighter”, un piano su cui molta stampa si è avventurata, accogliendo la semplicistica equazione sport violento = praticanti killer. Le MMA si presentano come soggetto ideale dello stigma, perché sono praticate da soggetti considerati devianti, presentano un sinistro slittamento del codice etico sportivo (anche se esistono molti altri sport dove è lecito farsi male: nel pugilato, per esempio, dove si muore statisticamente molto di più), convogliano l’immagine del gladiatore moderno, una sorta di mercenario che combatte in una gabbia per denaro, carne da macello per un pubblico desideroso di sangue. Nella frettolosità della cronaca che non conosce le arti marziali e si accontenta di derubricare le MMA nel novero di una sottocultura sportiva brutale, ciò che rimane fuori dal discorso è proprio il nodo gordiano che riguarda la relazione tra la pratica della violenza e l’esercizio del limite, come sottolinea Daniele Manusia nel suo articolo su L’Ultimo Uomo.
Chiunque abbia un’esperienza continuativa delle arti marziali è consapevole che il cuore di queste pratiche è costituito dalla disciplina, necessaria all’acquisizione del gesto atletico (fattore comune a tutti gli sport ma che nel caso delle arti marziali è portato al parossismo, visto l’infinito repertorio di combinazioni che si possono verificare in un combattimento), al condizionamento fisico, al controllo di tecniche potenzialmente dannose o mortali. Ma è anche consapevole che la violenza è il punto di partenza e l’ombra inseparabile dell’atleta, sebbene nelle sue declinazioni più alte l’arte marziale aspiri a tradurre la lotta in un conflitto interiore che il combattente affronta in ultima istanza con sé stesso, fino a sublimarla. Quello che non è entrato nel dibattito in corso è propriamente la riflessione su quale sia il rapporto tra un modello di società sempre più ossessionata dalla sicurezza, dal controllo, e l’espressione della violenza. Una società impregnata di localismi e agitata da rivendicazioni nazionaliste, individualista, dove lo spazio di azione e di rappresentazione dell’individuo si esprime essenzialmente nell’atto del consumare e nella spettacolarizzazione del sé, e che non sembra in grado di esercitare un controllo sulla violenza che produce.
Esiste una irrisolvibile, intrinseca dicotomia che appartiene alle arti marziali e che determina il grado di fascinazione che da sempre queste esercitano sull’immaginario popolare: da un lato c’è la bellezza di una disciplina che combina forza esplosiva e grazia, dall’altra l’imprescindibile nucleo di violenza che ognuna di esse contiene. In questa prospettiva è interessante notare come nel documentario Fighting in the age of loneliness di Jon Bois e Felix Biederman, si faccia risalire la nascita delle MMA a Jigoro Kano, fondatore del judo, che elaborò il patrimonio del ju jitsu trasformandolo in un metodo adatto a tutti. Divenuto successivamente disciplina olimpica e filtrato dalle sue componenti più pericolose – attenzione, mai diventato innocuo -, è universalmente conosciuto come sport di armonia, adatto all’educazione dei bambini e praticato fino alla terza età. Ma se Jigoro Kano è stato in grado di democratizzare e divulgare le arti marziali, la storia delle MMA passa successivamente dal Brazilian Ju Jitsu inventato dalla famiglia Gracie, dagli incontri senza regole degli anni ’60 – ’70 e sfocia nella nascita nel 1993 della UFC, l’organizzazione statunitense con sede a Las Vegas che dà popolarità alla disciplina. Un approdo molto lontano dal punto di origine.
A proposito di MMA, il sociologo Alessandro Dal Lago intervistato da L’Ultimo Uomo osserva che si tratti di una disciplina che matura in un momento storico post 11 settembre in cui esiste “una cultura fondamentalmente militare”, “soprattutto americana, ma anche europea”, “una cultura in cui la differenza tra pace e guerra tende ad essere un po’ confusa.” Una disciplina che affonda nell’antichità storica del pancrazio ma che si evolve fino a diventare un prodotto contemporaneo, assumendo caratteri e idiosincrasie dello sport business ma anche di una società che, pur rifiutando e stigmatizzando la violenza, continua a produrne e consumarne in quantità smodata, che marginalizza chi ne fa pratica sportiva ma allo stesso tempo ne vampirizza l’elemento spettacolare e lo vende come prodotto, pronta a indignarsi di fronte a degli atleti sanguinanti ma capace di tollerare e giustificare la violenza politica, esercitata dalle forze dell’ordine, dai militari e soprattutto subìta da chi si configura come l’altro, l’estraneo, il dissimile, il divergente.
Nelle MMA quindi possiamo individuare degli elementi culturali che meritino di essere approfonditi e che possono aiutare a comporre un quadro nel quale collocare i fatti di Colleferro? Sicuramente sì, a patto di ampliare l’analisi e superare il pregiudizio, a patto di scendere in verticale e andare oltre lo stereotipo del Fight Club attorno al quale si riduce ogni discorso sulle arti marziali fuori dall’ambito specialistico. Cercando magari quel limine tra sofferenza e stilizzazione che Antonio Franchini percorre nel suo libro Gladiatori, a oggi uno dei migliori testi usciti in Italia sul mondo del combattimento, in grado di raccontare tutto il mondo che vive attorno alle palestre, ricostruendo dal punto di vista del lottatore quel margine in cui esso inesorabilmente si muove, tra chi cerca il riscatto e chi la sopraffazione.
A tal riguardo, segnalo l’articolo uscito su Il Manifesto a firma di Giuliano Santoro sullo spazio al centro del quale è maturato il crimine di Colleferro: si racconta della Valle del Sacco “tra droga e gangsterismo, modello di sviluppo alternativo alla fabbrica”, provando ad allargare lo sguardo e cercando di inserire l’aggressione insensata a Willy Monteiro Duarte all’interno di un paesaggio sociale più complesso, in un territorio dove la perdita di occupazione arriva dopo una lunga storia industriale ormai ridotta ad archeologia e si traduce in lavori precari spacciati per opportunità. Il folklore delle arti marziali rimane fuori scena, il corollario di cliché e le foto pubblicate sui profili social dai presunti assassini anche, così come la pornografia dei dettagli delle vite private. Sullo sfondo, da qualche parte, c’è la palestra dove gli aggressori si allenavano e dove qualcun’altra continua a sudare e a fare a botte. Per chi vuole capire, i tatami, le gabbie, i ring sono sempre aperti.
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