Diritti

Migrazione e immaginario sociale

17 Maggio 2021

Si sono intensificati in queste ultime settimane i viaggi nel Mediterraneo, le rotte verso il ‘paradiso’, così la nostra Europa viene immaginata e idealizzata dallo sguardo di tante persone che anelano una vita diversa da quella che hanno, un’esistenza meno crudele, meno dolorosa, meno ingiusta e diseguale per se stessi e i propri affetti. Ma noi non siamo il paradiso, non siamo neppure un luogo ospitale ed accogliente.

Già solo rimanendo in Italia, sulla questione migratoria i governi italiani non hanno saputo adottare sino ad ora un modello chiaro e netto, per cui le forze politiche succedutesi nel tempo hanno oscillato e oscillano tra una visione assimilazionista, una interculturale o multiculturale. Non si intravedono dei modelli reali e concreti di società della convivenza plurale, equa e giusta. Prova ne è la difficoltà, che si protrae da molti e molti anni e a prescindere dal colore dei governi, ad approvare una legge di riforma della cittadinanza in una chiave veramente inclusiva e non discriminatoria.

Alcune ricerche in ambito di scienze sociali in questi ultimi anni, a livello internazionale, si sono orientate allo studio di quali fattori possano sostenere e facilitare veramente i processi di integrazione e di inclusione in un determinato contesto socio-economico e molte di esse concordano nel sostenere che per la buona riuscita di un inserimento attivo, dignitoso e libero è molto importante ridurre gli atteggiamenti stereotipi, pregiudizievoli e discriminatori della popolazione ospitante.

Ora sul fenomeno migratorio in Italia esiste una vera e propria divergenza tra i dati di realtà e l’immaginario collettivo e delle rappresentazioni sociali. Secondo quanto si può leggere sull’ultimo Dossier Immigrazione 2020 (del Centro Studi e Ricerche IDOS) una gran parte dell’opinione pubblica “è convinta che siamo di fronte a un fenomeno gigantesco, in tumultuoso aumento, che proverrebbe principalmente dall’Africa e dal Medio Oriente e sarebbe composto soprattutto da maschi musulmani” (Dossier Immigrazione 2020). I dati reali dicono invece che in Italia “l’immigrazione è per metà europea (49,6%), prevalentemente femminile (51,8%) e proveniente da paesi di tradizione cristiana (51,8%)” e che dopo anni di crescita, le presenze migratorie nel Paese sono sostanzialmente stazionarie da cinque-sei anni a questa parte: “5,3 milioni di residenti che diventano circa 6 milioni tenendo conto dei soggiornanti non iscritti in anagrafe e delle stime sulle presenze irregolari” (Dossier Immigrazione 2020).

Sul perché di questa divaricazione e più in generale sulle dinamiche attraverso cui si struttura il pregiudizio nelle comunità autoctone nei confronti dei migranti, sempre alcuni studi apparsi negli ultimi anni su riviste scientifiche di settore individuano una correlazione significativa con le rappresentazioni veicolate dai media sul fenomeno migratorio e non tanto con l’esperienza diretta di contatto tra autoctoni e migranti, che invece laddove si verifica senza troppi filtri e mediazioni ha esiti positivi ed incoraggianti nella prospettiva del dialogo e del riconoscimento reciproco.

E se in questi giorni hanno tenuto banco molte polemiche su quali parole si debbano o non si debbano usare, se abbia senso distinguere tra parola e intenzione con cui la si usa, se sia censura richiamare chi ha nelle parole i suoi ferri del mestiere a sceglierle in modo oculato e ponderato in relazione agli effetti che può produrre, è importante ricordarci che nessuna parola è neutra e che le parole creano realtà, fanno mondo. Noi costruiamo il mondo con le parole e ci costruiamo, costruiamo le nostre relazioni con gli altri e gli altri ci costruiscono a loro volta con le loro parole. Chi poi usa le parole per mestiere, perché fa il ricercatore, perché fa il docente, perché fa il politico, perché fa il giornalista, perché fa il poeta, lo scrittore, l’artista, l’opinion maker o l’opinion leader, allora ha una responsabilità in più.

È legittimo perciò chiedersi quale è il ruolo giocato dai media in Italia nella costruzione dell’immaginario sociale sul migrante.

Dagli studi condotti in questi anni dall’Istituto di ricerca indipendente ‘Osservatorio di Pavia’, in collaborazione con l’associazione Carta di Roma, sui media (web, tv, radio e stampa) e le loro narrazioni della migrazione, scopriamo che sia quantitativamente che qualitativamente in Italia la comunicazione mediatica difetta di inclusività, difetta di imparzialità, offre delle rappresentazioni che collocano in un’area di significati negativi e passivi la figura del migrante. Quest’immagine persiste pressoché immutata da diversi anni, gli ultimi Rapporti annuali di ricerca pubblicati dall’Osservatorio rilevano una narrazione mediatica in cui il migrante è simbolizzato come minaccia, oppure come un essere bisogno di aiuto e dunque come un peso, un problema, un’emergenza.

E sebbene nell’anno appena trascorso le notizie veicolate dai media siano state monopolizzate dal Covid-19, l’ultimo Rapporto, uscito a fine 2020 (Notizie di transito. VIII Rapporto Carta di Roma), attesta che i migranti continuano ad essere raccontati per lo più nel medesimo modo ed anzi il Rapporto registra un’ulteriore forma di minaccia che viene attribuita al migrante proprio all’interno della narrazione pandemica, stigmatizzato come possibile veicolo di contagio.

Nell’agenda dei temi trattati dai media in materia di migrazione, la centralità delle notizie riguarda i flussi migratori per il 51% dei casi, nonostante la significativa riduzione degli arrivi rispetto agli anni precedenti; al secondo posto vi sono quelle che riguardano gli aspetti culturali e sociali (12%), al terzo posto troviamo quelle che riguardano l’accoglienza, tema in costante diminuzione negli anni, rappresentando nel 2020 il 10% delle notizie dedicate alla migrazione. Quello dell’accoglienza non solo è un tema poco presente, ma quando c’è quasi mai racconta di cosa ne è delle persone una volta inserite nel nostro tessuto territoriale, dove e come vivono e si realizzano, non racconta quasi mai dell’accoglienza realizzata, ma solo di mancata accoglienza, o di accoglienza che non funziona o di respingimenti. Il tema dell’accoglienza è dunque rappresentato in termini di criticità e di difficoltà e raramente come opportunità.

L’analisi delle corrispondenze lessicali che la ricerca dell’Osservatorio di Pavia ha condotto sui titoli di 108 testate, tra giornali e riviste, ha individuato quattro cluster semantici in cui si possono aggregare le narrazioni mediatiche sui migranti: ‘accoglienza’, ‘allarme’, ‘lavoro’, ‘politica’. Il cluster più corposo è ‘Allarme’ (aggregando il 53% dei lemmi del corpus testuale analizzato) e rappresenta una “dimensione emotiva di preoccupazione, se non di aperto rifiuto, verso le migrazioni su aspetti che vanno dagli sbarchi alle tensioni internazionali, alla presunta emergenza sanitaria per la diffusione del Covid-19” (VIII Rapporto 2020). Il cluster ‘Allarme’ è significativamente connotato dal ricorso a termini che rimandano all’emergenza e soprattutto ad un lessico bellico, come ‘bomba profughi’, ‘guerra del mare’, ‘esplodere’, ‘scoppiare’, ‘trincea’, alimentando una rappresentazione della migrazione in termini di pericolo e di invasione. Il secondo cluster per dimensione è ‘Politica’ (20% dei lemmi) e in esso troviamo narrazioni sul dibattito politico in merito ai decreti sicurezza e alle vicende giudiziarie dell’ex ministro Salvini. Il terzo cluster, ‘Accoglienza’, raccoglie il 15% dei lemmi del corpus testuale ed è connotato da espressioni legate ai lemmi ‘emergenza umanitaria’ e ‘vittime in mare’ (VIII Rapporto 2020). Il 12% dei lemmi è aggregato nel cluster ‘Lavoro’ che è connotato prioritariamente da questioni inerenti la regolarizzazione dei lavoratori stranieri in agricoltura e lo sfruttamento dei braccianti.

Dal rapporto emerge anche che il termine ‘clandestino’ viene ancora largamente utilizzato nei titoli dei giornali, addirittura il suo uso si è solo incrementato dal 2017 in avanti, raggiungendo il livello più alto proprio nell’ultima rilevazione del 2020 (l’1,5% dei titoli di tutte le testate giornalistiche analizzate lo utilizzano). Questo termine usato per riferirsi a persone che richiedono protezione internazionale è giuridicamente errato e contiene evidentemente un pregiudizio negativo, connota l’atto del migrare aprioristicamente come qualcosa di sbagliato, di oscuro, di non legale.

L’analisi dei telegiornali di prima serata, la cui agenda anche in questo caso – come possiamo immaginare – subisce nel 2020 una forte viratura a favore di notizie sulla pandemia, restituisce delle rappresentazioni che sono sostanzialmente convergenti con la narrazione mediatica del migrante di cui stiamo ragionando qui. La centratura è quasi sempre sulle notizie inerenti i flussi migratori e la querelle politica generata dal fenomeno, o sarebbe meglio dire, creata a partire dalla strumentalizzazione del fenomeno. Sì perché se guardiamo alla presenza di voci di referenti politici e istituzionali nei servizi dei telegiornali scopriamo che nel 38% delle notizie riguardanti la migrazione intervengono esclusivamente loro con le loro dichiarazioni. La presenza invece dei diretti protagonisti delle notizie, ossia i migranti e i rifugiati, nei servizi dei telegiornali è marginale, hanno voce soltanto nel 7% dei casi e si tratta per la stragrande maggioranza delle volte di uomini. All’elevata esposizione mediatica del fenomeno migratorio non corrisponde un’altrettanta esposizione/presenza dei migranti stessi: si parla di loro senza dar voce a loro, si parla di loro senza che i loro vissuti, i loro punti di vista, le loro ragioni possano essere rappresentate e soprattutto rappresentate da loro stessi, in prima persona. I media parlano di migrazione con la voce e gli occhi degli autoctoni, i protagonisti della narrazione sono silenziati. E ciò costituisce un ulteriore atto di annullamento, di rimozione, di negazione, fatto questa volta non con le parole, ma per sottrazione della parola.

Le notizie relative all’accoglienza anche nei telegiornali sono del tutto marginali, registrando nel 2020 la percentuale più bassa degli ultimi sei anni di rilevazioni fatte dall’Osservatorio di Pavia: solo il 4% e sono prevalentemente connotate da questioni umanitarie e da toni emergenziali e problematici. Ancora una volta se ne parla poco e se ne parla in negativo.

Quando vien data voce ai migranti è quasi sempre per storie di marginalità e di illegalità, come ad esempio quelle dei ghetti, ovvero per storie di differenze culturali e soprattutto di differenze religiose marcatamente lontane dalla nostra cultura o in conflitto con norme o consuetudini del nostro Paese, specialmente in riferimento alle comunità musulmane. Le uniche interviste che connotano il migrante in senso positivo e proattivo sono quelle che hanno per protagonisti lavoratori stranieri sfruttati (come ad esempio i braccianti vittime di caporalato) che chiedono il rispetto della loro dignità, dei loro diritti elementari ad una paga e ad un contratto regolari.

Ricapitolando: la migrazione per la narrazione mediatica italiana è prioritariamente flusso di migranti e sbarchi, connotata come minaccia, pericolo, invasione, problema; in misura marginale come accoglienza, e mai in quanto storie di vita di persone straniere che cercano e trovano un posto tra noi, inseguono dei sogni, realizzano dei risultati, desiderano realizzarsi ed essere risorsa per il Paese che li accoglie, ma solo come storie di fallite integrazioni, di inserimenti problematici, di conflittualità e criticità del sistema. I protagonisti della migrazione quasi mai sono interpellati direttamente, al loro posto intervengono i politici italiani che guadagnano un posizionamento nella visibilità pubblica. Quando i migranti finalmente parlano sono storie di marginalità, di illegalità, ovvero le pochissime storie di protagonismo sono solo quelle dal sapore della rivendicazione e mai della proposta e della progettualità.

A leggere e ascoltare quotidianamente queste narrazioni quali sentimenti, quali vissuti, quali opinioni esse concorrono a strutturare negli uomini e nelle donne, nei bambini e nelle bambine, negli e nelle adolescenti, che quotidianamente incontrano un immigrato o un’immigrata nella metropolitana, sul marciapiede della strada, in un bar, in classe a scuola, nei campi di pomodori?

Con l’arrivo della bella stagione si sono intensificati i viaggi nel Mediterraneo, dicevo all’inizio. Evento già previsto e prevedibile e che puntualmente ci coglie ‘impreparati’, come fosse un’eccezionalità che ci sorprende all’ultimo minuto. Sì ci sorprende all’ultimo minuto, di ogni anno, da qualche decennio a questa parte. L’emergenza istituzionalizzata.

‘L’Europa è il paradiso’: questo è il racconto che coccolano e nutrono i migranti nei loro paesi di origine, dove – chissà come mai?! – non c’è ‘sviluppo’. In nome di questo racconto ingaggiano viaggi lunghi e terribili, attraversano il deserto, rimangono mesi e mesi in Libia, affrontano il mare in condizioni rischiosissime.

‘L’Europa è il paradiso’ è l’immaginario speculare al nostro, l’altra faccia del fenomeno e sua componente essenziale, che però non viene tematizzata, non entra nelle agende politiche e di comunicazione. L’altra faccia della luna, che a noi fa comodo considerare invisibile.

Domani, martedì 18 maggio, il Parlamento Europeo ha messo tra i punti all’ordine del giorno (cito testualmente): “Recenti morti nel Mediterraneo e missioni di ricerca e salvataggio in mare. Dichiarazioni del Consiglio e della Commissione”. Vedremo cosa ne verrà fuori.

Quante esistenze sono svanite drammaticamente nel Mediterraneo? Secondo i dati forniti da OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) tra il 2014 e il 2019 vi hanno perduto la vita, o risultano disperse, oltre 20.000 persone e dei due terzi di queste vittime non è stato possibile recuperarne i corpi. Dall’inizio del 2021 si contano già più di 500 morti, un numero triplicato rispetto allo stesso periodo del 2020.

[L’immagine di copertina è del fotografo Carlo Elmiro Bevilacqua]

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