Società

Mea maxima culpa. Ma siamo sicuri che la colpa sia veramente mia?

23 Settembre 2021

Il senso di colpa è alla base di tutto, come riassume il Confiteor. Si comincia da lontano, lontanissimo. Nel libro della Genesi la colpa dei nostri progenitori è fondamentale nello sviluppo del seguito della storia. Diciamo che è una bella trovata per un incipit, un elemento basico nella sceneggiatura che prevede un magnifico giardino pieno di piante, anche quelle velenose, anche quelle estinte, senza differenza di zone climatiche, il pino mugo accanto alla palma da datteri, tanti animali, anche quelli che oggi non ci sono più, una non precisata pianta della vita (sicuramente non velenosa) e una pianta della sapienza che però è proibita, ma è accessibile per indurre in tentazione. Ed è, naturalmente, quest’ultima, una ghiottoneria. Una sceneggiatura perfida, quasi da melodramma, anche perché sennò non si sarebbe potuto sviluppare tutto il resto, Caino e Abele, il diluvio, Sodoma e Gomorra, le piaghe d’Egitto, Mosè, le tavole della legge, il roveto ardente e così via, senza limiti alla fantasia. Senza il peccato originale l’Eden avrebbe continuato a esistere sempre uguale a sé stesso, chissà, magari un po’ sovrappopolato dal momento che bisognava crescere e moltiplicarsi nell’armonia dell’Età dell’Oro. L’Eden era probabilmente un hortus conclusus, tant’è che i confini erano presidiati da cherubini fiammeggianti. Oltre, il deserto. Che se ne fece di quell’oasi, una volta estromessi i destinatari e curatori di quel dono, nessuno lo dice. Probabilmente i cherubini ardenti saranno ancora lì a sorvegliare, sempre badando di non propagare le fiamme a quel bel giardino, svolazzandogli intorno per salvaguardarne i confini. Fa parte del prologo, poi i lettori vengono distratti da tanti racconti pieni di vendette, stragi, piaghe, dicono sempre a causa del peccato originale, e inizia un’interminabile serie tv. Che fardello sulle spalle di Adamo ed Eva e della loro discendenza!

 

Il senso di colpa, già. Una bella trovata per dominare gli uomini, non c’è che dire. I Greci questo non ce lo avevano. Avevano però la vergogna e il biasimo generale per chi trasgrediva. Le colpe erano, invece, più associabili agli dèi, i quali si immischiavano senza sosta delle cose umane, facendo i dispetti agli uomini e rendendoli pazzi. Gli dèi greci erano veramente stizzosi, va detto, a volte simpatici, a volte proprio insopportabili. Il dio biblico è assai diverso per alcuni aspetti, ma poi, alla fine, pure lui si nutre di vendette, di eserciti, di tentazioni, senza assumersi alcuna responsabilità e quindi alcuna colpa perché è così e basta, è imperscrutabile. Intanto è uno solo. La colpa è sempre delle sue creature inferiori, a cui ha lasciato come regalino avvelenato il libero arbitrio inserito in un suo disegno preordinato, una sorta di libertà vigilata. Bel concetto di libertà, non c’è che dire. Quanto il senso di colpa abbia influito nello sviluppo della civiltà occidentale, ovviamente intrisa di cristianesimo, è indubbio e la sua declinazione nei vari aspetti della vita è talmente fastidiosa e invadente che alla fine la “trasgressione” risulta liberatoria. Almeno se uno commette un peccato ci provi piacere, sennò è tempo mal impiegato.

Perfino quando si va dal medico per risolvere dei problemi ci si sente dire che la colpa dei tuoi malanni è tua, perché mangi male, perché non fai movimento, perché non fai questo o quello. Non magari di un virus o un batterio invadenti, un’esposizione inconsapevole a un veleno, un parassita, un alimento inconsapevolmente guasto, e cose così. Un agente che agisce indipendentemente dalla mia volontà. Nel mio caso, una grave obesità, derivante da incidenti e operazioni, probabilmente anche da predisposizioni genetiche, che hanno sconvolto il mio corpo, il quale, a causa della forza di gravità, ha distrutto le mie ginocchia, i chirurghi si sentono in dovere di consigliarmi che io debba decidere per un’operazione di chirurgia bariatrica perché così il problema obesità si risolve. Zac, si taglia e la pancia non c’è più, come nella pubblicità dell’Olio Sasso. Poi possono subentrare mille altri problemi dovuti alla resezione irreversibile dello stomaco (peraltro in un soggetto a cui hanno asportato, in passato, già mezzo fegato) ma la loro coscienza è a posto, perché, se rinunci al loro rimedio per motivi tuoi estremamente razionali, sei tu che hai la colpa di non decidere, la colpa di un’alimentazione sbagliata (secondo loro, smentiti da analisi ematiche tutto sommato discrete), la colpa di uccidere il tuo corpo. La sofferenza che io provo è la punizione per la mia ribellione al senso di colpa, e non la loro cecità, la loro incompetenza e inadeguatezza a risolvere il mio problema. Nessuno di quei medici da me incontrati vede oltre la propria specializzazione e quindi riesce a vedere, o vuole vedere, la realtà da altri punti di osservazione. Il chirurgo taglia, è il suo lavoro, e vuole esprimersi coi ferri perché così risolve il problema. Ti fa male un dente? Via, si cava e si continua. Certo, a volte si possono risolvere dei problemi tagliando e asportando o sostituendo ciò che non funziona, come nel caso di tumori od organi e ghiandole danneggiati o articolazioni malconce, che potrebbero degenerare e creare danni maggiori, ma non sempre tagliare è la soluzione. Di certo è la soluzione per lui (che riceve uno stipendio per tagliare), perché così poi scarica la responsabilità sul paziente che deve seguire il postoperatorio bariatrico, dopo averlo scelto e firmato dei fogli dove si scaricano i chirurghi da eventuali fallimenti delle loro operazioni. Il chirurgo non si sente minimamente in colpa (la colpa è SEMPRE del paziente) per non riuscire a capire se il problema è più complesso. Ma questa è già una considerazione alta del chirurgo. Si annida il dubbio che l’operazione sia in realtà una macchina per far soldi.

La mia esperienza alla Clinica Universitaria di un rinomato centro medico per l’obesità, in una nota città del centro Italia, è stata grottesca, con un triplice colloquio preliminare con tre grandi dottori (e professori, con tanto di tirocinanti sbigottiti al seguito), una psicologa, un endocrinologo e una dietista che, se fossero stati le caricature di una commedia all’italiana sarebbero stati più credibili. Tre sciroccati. Alla fine l’impressione che se ne ricavava era la seguente: se loro effettuavano 380 operazioni all’anno, come dichiarato dall’endocrinologo per mettermi in soggezione e farmi sentire un privilegiato qualora fossi rientrato tra i 380, era semplicemente per avere più sovvenzioni e più sponsorizzazioni, e la mia operazione avrebbe contribuito alla loro abbuffata. Un’abbuffata reale anche per me vista la dieta che mi aveva dato la dietista in quel colloquio, con una quantità di roba da mangiare che mai mi sarei sognato e, udite udite, con alimenti blasonati, come certi biscotti, certe barrette energetiche, con nomi di varie marche industriali italiane e multinazionali ben marcati sui fogli, e così via. Ossia con prodotti che solo a guardarli aumenti di un chilo, prodotti che, oggi, molto più consapevole di ciò che ingurgito, mai mi sognerei di mangiare e sconsiglierei agli amici. E, last but not least, dopo l’operazione avrei dovuto consumare degli integratori a vita, di certe case produttrici e solo di quelle. Chiaro, no? E poi io avrei dovuto sentirmi in colpa per non avere approfittato di quest’occasione d’oro. D’oro, sicuramente per qualcun altro diverso da me. Tutto ciò a corollario di un approccio medico-paziente totalmente rivoltato e corrotto dall’interesse aziendale. In perfetta linea con una scuola aziendale, con una sanità aziendale, con una visione aziendale della vita, al passo coi tempi.

E se non sei al passo coi tempi devi sentirti in colpa. Bisogna assolutamente sentirsi in colpa se non si ha l’ultimo modello di telefono portatile o “smart”, nel doppio significato di intelligente ed elegante, brillante, perché solo su quel telefono, ultimo modello, funzionerà lo spid, ormai indispensabile. E sei colpevole se non stai sui social, per cui se non hai facebook o instagram, o se ancora hai un “vecchio” portatile senza schermo, ossia un telefono che fa il telefono, sei tagliato fuori, perché ormai avere un website è quasi obsoleto, si usa fb, e bisogna aspirare a diventare influencer, con tanti pollici in su, e se non utilizzi 6 parole su 10 in inglese sei out. E se non cammini col telefono in mano messaggiando compulsivamente e urtando me che mi reggo col girello. Sì, sono un disabile e sono colpevole anche di questo, naturalmente, scusate se esisto.

La mancanza di collegamento tra problemi e soluzioni è uno dei molteplici paradigmi della nostra complessa contemporaneità. In tutti i campi. Nel mondo burocratico la colpa è sempre dell’utente che non riesce a capire come funzionano ormai i mezzi telematici, i quali, spesso e volentieri, sono fallaci e presentano bachi nei sistemi e nei software. Gli impiegati, spesso inadeguati a confrontarsi con tutta la tecnologia che dovrebbero saper maneggiare, combinano di quei pasticci che l’utente poi si trova nei guai senza sapere come uscirne. Ma la colpa è sempre sua, ça va sans dire. Chiedendo l’iscrizione nella lista bianca (per poter circolare in ZTL essendo disabile) ai Servizi alla Strada di Firenze, azienda esterna afferente al Comune, ho scoperto, per esempio, di non essere residente a Firenze, dove invece abito. Nulla, il computer si rifiutava di annoverarmi tra i residenti, nonostante mostrassi una carta d’identità elettronica inequivocabile.

“Ah. E dove sarei residente, dal momento che ho anche un pass per residenti?”

“Questo il computer non me lo dice.”

“E non le sembra strano?”

“Perché? Lei, nel frattempo, avrebbe potuto cambiare residenza, se il computer dice così non può essere diversamente.” disse colei con voce querula.

“Appunto, come dice lei, cambiare. Ma se non sono residente da nessuna parte, il cambio dove lo avrei fatto…”

“Ah. Comunque da noi non risulta residente.”

“L’importante è che ora sia iscritto nella lista bianca.”

“Sì, sì, quello sì.”

“Grazie, mi basta questo, arrivederci.”

Continuare sarebbe stato tempo buttato via, e, comunque, la colpa è sempre tua.

La sventurata telefonò qualche giorno dopo.

“Buongiorno, sì, abbiamo appurato che è residente.”

“Buongiorno, cara, grazie, sono contento per voi. Arrivederci.”

Nessuno pensa che la macchina è stupida e che esegue solamente degli ordini programmati e impartiti da chi quella macchina ha costruito.

Un altro senso di colpa che ti viene buttato addosso è se tu sai le cose, ovvero se hai studiato bene o benino e hai appreso un certo bagaglio di informazioni, se rifletti e analizzi. Sei colpevole di troppa accuratezza, pignoleria, in fondo di ‘sti dettagli chi se ne frega. Questo  atteggiamento di colpevolizzazione è molto diffuso a causa del trionfo dell’ignoranza e della banalità, che oggi sono diventate il metro di tutte le cose, e si riallaccia a ciò che ho raccontato e che sto per raccontare.

Sembra inevitabile, la colpa viene sempre attribuita agli altri, è uno sport globale. Un altro campo in cui il senso di colpa è applicato con grande successo, per rimuoverne un altro collettivo e che sarebbe giustificato ma che non viene erroneamente considerato, riguarda il caso degli spostamenti di masse di uomini e cose. Accade da un po’ di anni che un numero crescente di stranieri aspiri a venire ad abitare e vivere in luoghi meno complicati, all’apparenza, dei propri paesi d’origine. Accade anche che ci sia qualcuno, in questi paesi d’arrivo, che veda questo movimento come un’invasione, come una sorta di appropriazione indebita. Ma che cosa vogliono costoro, ma perché non se ne stanno a casa loro, ecco, vengono qui pensando che noi li si campi a spese nostre, e ci portano le malattie, e ci tolgono il lavoro, e ci stuprano le donne, e ci rubano in casa, e vogliono perfino un sussidio e paga Pantalone. La colpa è loro, naturalmente, perché desiderano ciò che desideriamo noi e questo non va bene. Noi, peraltro, ossia coloro che abitano nei paesi d’arrivo, con politiche coloniali dissennate e assai egoiste nel passato remoto e recente, abbiamo contribuito a sfruttare e impoverire quei paesi, estraendo qualsiasi cosa fosse possibile cavare da rocce, deserti, profondità della Terra, petrolio, metalli, pietre preziose e impadronendoci del tutto. Ovviamente lo sfruttamento, in molti casi, anche dopo la fine del dominio coloniale, è continuato e continua ancora. Pertanto, in quei paesi, lo stato delle cose risulta assai precario, per usare un gentile eufemismo. Per dirottare il senso di colpa che si dovrebbe giustamente provare viene detto: aiutiamoli a casa loro. Dall’altra parte forse dicono: basta coi vostri aiuti, abbiamo visto di che si tratta. Gli esempi sono molteplici: Siria, Libia, Iraq, Afghanistan eccetera. Ma di questa loro situazione, i paesi che si sono arricchiti non paiono serbare un ricordo, anzi, spesso i loro abitanti con meno materia grigia, che sembrano essere la maggioranza, proprio non capiscono di cosa si lamentino quei viaggiatori colorati. Ci manca poco che quegli abitanti del paese ricco di arrivo chiederanno di distribuire brioche nei campi profughi per placarli e così sentirsi gratificati come benefattori.

Eppure sarebbe così semplice da comprendere. Basterebbe ripensare all’antica favola di Fedro: Superior stabat lupus, longeque inferior agnus… e così via. Già, era il lupo che stava in una posizione più alta sul ruscello, ad accusare il mite agnello di insudiciargli l’acqua da bere, anche se era esattamente il contrario: Cur? Ille inquit, eccetera. Come, non conoscete il latino? Studiatevelo, sentitevi in colpa per non saperlo, vestra maxima culpa, perbacco! E così il lupo aveva ragione nel divorarlo, era giustificato, anzi ben motivato, e non doveva sentirsi in colpa mentre l’agnello sì, anche se entrambi erano siti compulsi. Probabilmente Fedro, originario della Tracia e giunto a Roma in schiavitù a causa della repressione di Pisone, una volta diventato liberto, ossia un ex-schiavo (per chi non sapesse chi erano i liberti), ricordava assai bene cosa significasse essere soggetti a una potenza straniera, sebbene duemila anni fa le condizioni sociali fossero molto diverse dalle odierne. Ma lo spirito coloniale e imperialista degli antichi Romani è rimasto tale e quale, imperituro. I lontani eredi dell’Impero Romano negli ultimi secoli hanno continuato a fare la stessa cosa che facevano gli antenati: colonizzare per sfruttare i territori. Certo, a volte in quei paesi i nuovi colonialisti portavano infrastrutture come strade, ferrovie, ospedali (e chiese…), un po’ come facevano i Romani con strade, ponti, acquedotti, teatri, stadi. Ma l’impoverimento di quei territori, sfruttati fino all’inverosimile, oltre, naturalmente, ai soliti inevitabili genocidi degli autoctoni, è ciò che ha prodotto lo stato attuale di molti paesi, soprattutto in Africa, in Medio Oriente, nell’America del Sud. Così ci s’indigna se i più poveri pensino di spostarsi nelle terre degli ex-padroni chiedendo idealmente una sorta di risarcimento per ciò che è avvenuto (e avviene ancora) nei loro paesi d’origine, molti dei quali difficilmente abitabili, a meno che uno non sia ricco sfondato e abbia un aereo personale per andare a fare shopping e per farsi curare in Europa. Il gioco delle ex-potenze coloniali è sottile, usando spesso il mezzo della guerra continua. Oppure li occupano perché li ritengono covi di terroristi che organizzano (ma sono davvero i terroristi a organizzarli?) attentati nei paesi ricchi o perché i dittatori montati da quelle stesse potenze – tramite cui i paesi ricchi e stolti credevano di poter dominare più tranquillamente quei popoli di selvaggi – a un certo punto si ubriacano del potere e decidono di fare da soli.

Questa è la sintesi, naturalmente, il brodo di coltura dove si sviluppa tutto, ma le cose sono assai più articolate e non vado troppo per le lunghe perché il soggetto è qui il senso di colpa. Ed eccolo: il lupo accusa l’agnello. I milioni di migranti che “invadono” i nostri bei paesi hanno tutte le colpe. Non importa se fuggano da paesi in guerra, distrutti con armi vendute dai paesi ricchi ai paesi che si dilaniano uno contro l’altro per mantenere quello stato di belligeranza così favorevole alle potenze ex-coloniali e altre nuove aspiranti tali. Oppure che ci sia un alto tasso di povertà e una qualità della vita inesistente. Divide et impera, accidenti, sempre ’sto latino di mezzo. Di schiavi c’è sempre bisogno, d’altro canto, per poter condurre una vita da pascià. Le nuove potenze coloniali, che si esprimono in un’altra maniera da quelle tradizionali europee (e che si aggiungono a esse), senza bisogno di estendere i propri confini territoriali, risultano essere ipocrite tanto quanto se non di più, vedi i nuovi paesi “rinascimentali” – così definiti da uno statista italiano da operetta che circola ancora in Parlamento – dell’Asia come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi Uniti. O la Cina che “offre” servizi di ricostruzione chiavi in mano a paesi dove la situazione politica e sociale è assai instabile, invadendo di fatto quelle economie traballanti e impossessandosene. Le cavallette. Ma la colpa, naturalmente, è sempre dei più deboli, longeque inferior agnus. Come, se ho la pancia, la colpa è mia.

Ops… mentre scrivo la Cina va in fallimento per  una speculazione edilizia andata a male, portandosi dietro le borse di tutto il mondo. Bene! Si sentano in colpa.

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