Calcio
Mancini, Conte, Sacchi, gli oriundi e un calcio che va a picco
Cile, 1962. La Nazionale italiana “più forte di tutti i tempi” si appresta a fare il suo esordio al Mondiale, conservando più d’una velleità di vittoria finale. Dopo un girone di qualificazione rivelatosi una passeggiata, ecco gli azzurri arrivare in Sudamerica con ben sei oriundi: i tre “angeli” argentini “dalla faccia sporca” Maschio-Angelillo-Sivori, l’altro argentino Francisco Ramón Loiácono -italianizzato in Lojacono-, a cui si erano aggiunti i due brasiliani Sormani e Altafini, con quest’ultimo reduce dal precedente mondiale giocato in Svezia con la maglia carioca al fianco di Didì Vavà e Pelè.
La spedizione nonostante gli auspici non fu brillante: l’Italia si dovette inchinare ai padroni di casa del Cile in una partita al limite del regolamento, al termine della quale gli azzurri contarono oltre a qualche cazzotto impunito ricevuto e oltre all’espulsione di David e di Ferrini, anche la realtà amara dell’eliminazione.
Feroci polemiche al rientro della comitiva, e non a caso sotto la luce dell’accusa piombarono proprio i sei oriundi, tacciati di scarso impegno e di scarso attaccamento alla maglia. Famoso l’epiteto coniato da Gipo Viani al Milan per Altafini: “Conileone”, ad indicare la non grandissima indole del brasiliano nel battersi coraggiosamente in campo.
L’oriundismo nel nostro calcio è sempre stata un’abitudine sin da quel 1934 in cui gli argentini Enrique Guaita, Raimundo Orsi, Atilio José Demaría e Luisito Monti contribuirono -in verità non da protagonisti- al successo dell’Italia di Pozzo nel suo primo Campionato del Mondo. Quattro anni dopo, nel bis francese, Pozzo si portò l’uruguagio dai nonni salernitani, Michele Andreolo, a sostituire proprio Luisito Monti. Neanche lui però riuscì a finire sugli scudi, nonostante il successo degli azzurri.
A proposito di Uruguayani, negli anni ’50 fu la volta di Ghiggia e Schiaffino, stelle di Roma e Milan e artefici del celebre Maracanazo del Mondiale 1950 in cui il loro Uruguay regalò al Brasile la tragedia sportiva più cocente della sua storia, se vogliamo aggiornabile con il recentissimo 1-7 tedesco durante l’ultima semifinale iridata. Grandissimi giocatori entrambi, probabilmente ancor oggi -insieme ai vari Francescoli, Cavani e Suárez- i massimi esponenti calcistici del piccolo ma calcisticamente florido paese pampero, Ghiggia e Schiaffino non portarono portarono grossa fortuna alla Nazionale italiana, che non riuscì neanche a qualificarsi per i Mondiali di Svezia – sì, quelli cha Altafini giocò col Brasile. In totale per i due uruguayani, 9 presenze (4 Schiaffino, 5 Ghiggia) e un solo gol (Ghiggia).
Nonne, nonni, bisnonni. Si sa, tra l’Italia e il Sudamerica -specialmente Argentina, ma anche Uruguay e Brasile- esiste da sempre, o almeno dagli inizi del secolo scorso, un legame a doppio filo. Molti argentini -più del 70% della popolazione, secondo alcune stime- ha origini italiane, lontane o vicine che siano. E visto che qui parleremo quasi esclusivamente del Sudamerica, ritorniamo in Cile, in quel 1962. Anzi che dico, prendiamo e torniamo a casa con l’Italia, e proviamo a immaginare gli umori di un paese orgoglioso e deluso, convinto di poter far bene e adesso spinto dalla necessità di rialzarsi. Storie cicliche, certo. Storie che si ripetono.
La colpa è degli oriundi, si dice. E si sbaglia. Perché la colpa magari poteva giacere sulla responsabilità del duo Mazza-Ferrari di stravolgere la formazione col Cile, dopo che l’Italia aveva comunque ben giocato -ma non vinto- l’esordio coi tedeschi. Sta di fatto che si cambia mister, arriva Fabbri, e l’Italia quattro anni dopo si presenta in Inghilterra senza oriundi ma con tre Coppe dei Campioni e tre Intercontinentali vinte dal Milan di Rivera, Rocco e Trapattoni e dall’Inter di Mazzola, Burgnich, Facchetti e Corso. Le aspettative sono alte, altissime. I risultati cocenti, ancor più che in Cile: arriva un odontotecnico nordcoreano a spazzarci via dal Mondiale, e se quattro anni prima era delusione, ora è dramma. Senza neanche un oriundo con cui prendersela.
La storia degli oriundi si interrompe qui. Riprenderà nel 2006, quando Mauro Germán Camoranesi prende parte alla spedizione azzurra che vince i mondiali tedeschi. A dire il vero, fatta eccezione per la semifinale contro la Germania, neanche Camoranesi fu protagonista, ma comprimario.
Il resto è storia recente: ricordiamo con commozione l’italo-brasiliano Amauri che per mesi tenne tutti sulla spina prima di convincere tutti sul campo a suon di prestazioni non proprio felicissime, dimostrando che tutta questa voglia oriunda talvolta può essere eccessiva e travalicare l’esigenza sportiva.
In queste ore sotto accusa è finito l’attuale tecnico dell’Inter Roberto Mancini, intervenuto a proposito delle freschissime convocazioni diramate dal C.T. azzurro Conte, in cui sono presenti anche Franco Vazquez (argentino con mamma padovana, arrivato in Italia soltanto due anni fa) e Martins Eder, brasiliano naturalizzato italiano per via di un bisnonno. Mancini si è opposto agli oriundi, spiegando il suo pensiero secondo cui «un giocatore italiano meriti di giocare in nazionale, mentre chi non è nato in Italia, anche se ha dei parenti, credo non lo meriti. E’ la mia opinione». Legittima, per altro, anche se non proprio corretta. Non è il luogo di nascita – l’attaccante del Sassuolo Sansone è nato in Germania da genitori italiani- a determinare la nazionalità, ma non lo è neanche il desiderio di gloria, o il bisnonno abruzzese mai conosciuto.
Non è di molti anni fa la vicenda Passaportopoli, per cui in un momento parve che qualsiasi sudamericano militante in serie A avesse un parente italiano. Questo per aggirare la regola sul tetto degli extracomunitari -giusto per rispondere a Conte, sulle regole-
Si sa però, questi sono tempi in cui a maneggiare parole come “straniero”, “italiano”, “identità nazionale”, “africano” o “nero” si rischia tanto, tantissimo, troppo. Per intenderci, in questi tempi pazzi capita che un uomo di sport e un grande maestro di calcio nonché persona a modo come Arrigo Sacchi venga duramente ripreso da Joseph Blatter – uno dei più controversi personaggi della storia del calcio, quello, per intenderci, che vende i Mondiali al Qatar– e addirittura tacciato di razzismo, a fronte di una semplice analisi espressa dal tecnico romagnolo sui mali che affliggono il nostro calcio, che non sono propriamente “gli stranieri”, né “gli oriundi”, quanto il gigantesco giro d’interessi che c’è attorno al movimento.
Per chiarire, Sacchi in quell’occasione venne intervistato durante la finale del Torneo di Viareggio, e spiegò come i problemi dei settori giovanili italiani nascano dal fatto che molto spesso si preferisce prendere “forza lavoro” e prospetti da paesi poveri, questo non tanto per volontà di far emergere talenti sconosciuti, quanto per lucrare più cospicuamente sulle illusioni di famiglie e ragazzi magari neanche tanto dotati, ma comprati per una sorta di speculazione. Da lì, Sacchi indicò le due squadre dicendo: «Vede? In una finale giovanile due quarti dei giocatori sono africani».
Figuriamoci. Il finimondo. Da lì i titoloni: “Sacchi: «troppi neri nelle squadre giovanili»”, e il gioco è fatto. L’agnello è sacrificato. E non importa se la polemica monti per una gaffe evitabile -come quella di Tavecchio, che tentando di esprimere i concetti qui sopra ha sbagliato completamente registro e pensiero- o per un’intervista intelligente manipolata -vedi Sacchi-. La cosa importante è mettere a tacere qualsiasi voce di dissenso, e qualsiasi opinione che vada a scavare più a fondo nei meandri di un calcio in crisi.
Lo stesso Conte si è limitato a un laconico “queste sono le regole”, dichiarazione troppo sibillina per poterne inquadrare una posizione, e una volontà di affrontare seriamente il problema che, a giudicare dalle reazioni, appare spinoso.
Ora, non solo è buona cosa convincersi che Mancini non sia razzista, ma è anche realistico pensare che Mancini non abbia nessun bisogno di smentire il suo presunto razzismo, mentre ad esempio se qualcuno lo intervistasse in maniera più articolata potrebbe uscire una visione -da uomo di campo- molto più sensata e utile rispetto al chiacchiericcio futile che parla di stranieri e di italiani.
Lo stesso chiacchiericcio che si dimentica di quell’ordinario immigrato con origini italiane che per ottenere cittadinanza o per essere semplicemente riconosciuto oriundo deve solcare fatiche ercoliane, e che in mezzo ai selfie con banana si dimentica anche di quei ragazzi recuperati in prossimità dell’Equatore e strappati ancora bambini dalle proprie famiglie che intanto pagano il sogno di avere un futuro Weah, prima di venire scaricati in Eccellenza per pochi euro al mese, prima di essere costretti a trovarsi il lavoro per vivere in un paese che neanche hanno scelto, e per ripagare il debito contratto.
A fine febbraio Dario Pelizzari di Panorama ha intervistato Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo, per approfondire la questione. Così Valeri:
Esiste un problema di tratta sportiva, che riguarda soprattutto i minorenni. Fino a qualche anno fa il meccanismo era abbastanza disciplinato, nel senso che i procuratori portavano i ragazzi in Italia per fargli sostenere un provino e, se le cose andavano bene, tutti felici, altrimenti arrivederci e grazie. Ricordo che negli anni Novanta si parlò molto della scelta di Luciano Moggi, allora direttore sportivo del Torino, che decise di ingaggiare tre giocatori ghanesi, allora minorenni, Duah, Kuffour e Gargo. Non c’erano restrizioni in questo senso, l’apertura verso i giocatori extracomunitari era più grande. Il giro di vite imposto dalla Fifa e quindi dalla Federcalcio ha cambiato le carte in tavola e una cosa del genere non sarebbe ora più possibile. Questo non significa però che non esista il problema: perché sono ancora moltissimi i giocatori che raggiungono il nostro Paese con l’inganno, ovvero con la certezza di aver ottenuto un ingaggio da professionisti che si scopre poi essere pari a zero.
Una truffa in piena regola, incalza il giornalista. Questa la risposta:
Ci sono personaggi italiani e africani che promettono ai ragazzi più bravi di avere un futuro in Italia. Li convincono a venire nel nostro Paese per sostenere un provino, ma il viaggio in aereo è quasi sempre a loro spese e le loro famiglie sono quindi spesso costrette a indebitarsi per acquistare il biglietto aereo. Fanno il provino, poi ognuno per la sua strada. Se sono minorenni, non possono però venire rimandati per legge nei loro paesi d’origine, anche se – come dicevamo – le possibilità che riescano a strappare un contratto professionistico sono bassissime. Ed ecco che cominciano i guai. Per loro, si intende. Ma non è finita qui, perché va segnalato anche il fenomeno dei giovani che raggiungono le nostre coste con i barconi.
E poi ancora Valeri, parlando delle prospettive:
La maggior parte di questi migranti aspiranti calciatori non riesce a trovare un lavoro che gli consenta di chiedere un permesso di soggiorno regolare. Quando va loro bene, finiscono a raccogliere pomodori e frutta per arrivare a fine giornata. Anche se erano giocatori promettenti. Ricordo il caso di un ragazzo che aveva giocato nell’Under 19 del Ghana: aveva i numeri per fare una buona carriera, ma presto si trovò di fronte a una realtà diversa e poco dopo venne arrestato per spaccio di droga a Palermo. Il problema è doppio. Parliamo di giovani che devono prendere coscienza del fatto che il loro sogno sia finito, e già questo non è facile da accettare; in più, sono costretti ad accettare lavori di ogni genere perché devono pagare il debito contratto dalla loro famiglia per farli venire in Italia.
Un discorso molto più complesso e delicato di ciò che sembra, che purtroppo si presta a manipolazioni e fraintendimenti, e che distoglie lo sguardo da ciò che sta contribuendo a soffocare fortemente un movimento.
Ritornando al discorso oriundi, possiamo anche impegnarci per ore in raffinate analisi tecniche dimostrando quanti -pochi- benefici abbiano portato i “fuoriclasse” oriundi in confronto alla quantità di polemiche create, e soprattutto quali siano parametri tecnico-tattici per recuperare anche in serie inferiori giocatori “non oriundi”, magari più giovani, e magari anche più bravi.
A Mauro Icardi, centravanti dell’Inter e figlio dell’italo-argentino Juan Icardi, venne chiesto di giocare per l’Italia, così come a Paulo Dybala, forte stellina argentina del Palermo. Eppure per Icardi le origini italiane sono prossime e ben nitide, non dobbiamo rincorrere bisnonni. La risposta fu negativa da entrambi, per due motivi. Primo: un calciatore che ha la possibilità di giocare per la nazionale del suo paese, ci gioca sempre. Infatti a guardar bene la maggior parte degli oriundi che hanno cambiato casacca sono di origine argentina e brasiliana -ormai pochi gli uruguagi-: Thiago Motta, Camoranesi, Vazquez, Taddei, Amauri, a cui vanno ad aggiungersi i vari brasiliani sparsi per le nazionali del mondo, come il croato Eduardo o il giapponese Alex.
Argentina e Brasile sono storicamente paesi che rappresentano due autentiche fucine di talenti, con una competizione molto serrata per entrare a far parte della selezione nazionale. Un ingaggio di un giocatore convocato in Nazionale ha scatti economici non da poco, e si sa quanto gli staff dei calciatori siano molto interessati a questo aspetto. Ad esempio, prendiamo Eder: il proprietario del cartellino è una società chiamata Latin Futebol Consult – s.r.l., con sede a Siena, proprietaria anche del cartellino di paulinho, altro centravanti brasiliano che ha militato per tanti anni in Italia, altro brasiliano finito in odore di convocazione, prima degli scorsi Mondiali. Intanto il valore di Eder in tre anni è raddoppiato: da 4 a 9 milioni. Da gennaio (quindi nel giro di due mesi) il valore del cartellino è aumentato di un milione di euro (dati Trasfermarkt). Ma anche questo si dimentica. Insomma, le dimenticanze sono tante, troppe. Come lo stesso Eder, che rilascia un’intervista a un giornale brasiliano in cui dice che “In Italia non c’è cultura sugli oriundi come in Francia e Germania”, dimenticandosi di essere italiano, dimenticandosi la storia diversa dei tre paesi, dimenticando per un attimo questa “grande passione” che dovrebbe muovere l’attaccamento alla maglia, al paese, alla cultura che ti adotta, e che tu (in teoria) avresti deciso di sposare. Sempre che di una questione culturale si tratti.
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