Governo
Lottare per “non morire”
“La cultura deve essere proprio l’ultima cosa a spegnersi, non la prima” (T. Montanari, su MicroMega). “La scuola deve essere l’ultima a chiudere” (L. Azzolina, recentemente da Fazio).
Parole sante. Come non trovarsi d’accordo sul valore della cultura e della scuola per la formazione dell’uomo e del cittadino?
Il covid ci sta abbrutendo. Il governo chiude i luoghi della costruzione umana della persona. Ci sembra inaccettabile, “illogico”, ha detto Emma Dante invitata dalla Gruber.
Certo, ci mortifica. Però, pensiamo un attimo a che cosa accadrebbe se scuole e teatri chiudessero davvero per ultimi e venissero serrate in primis fabbriche alimentari e farmaceutiche: è vero, “non di solo pane vive l’uomo”, ma senza anticoagulanti, farmaci per la pressione, antibiotici e chemioterapici muore di sicuro.
Ora, la questione è semplice: se ti trovi di fronte a uno che ha un’arma puntata contro di te, che fai? Ripassi a memoria il testo dell’Aiace di Sofocle che vorresti veder rappresentato a teatro, oppure cerchi disperatamente di proteggere la tua vita, chiedi aiuto, forse scappi e pensi che se muori finisce tutto, lasci abbandonato chi dipende da te, e senti che “non morire” allora è un dovere, non solo un diritto? Cioè, in certi momenti della storia non puoi fare a meno di pensare a “non morire”, direbbe Curzio Malaparte.
Bene, ora siamo a quel punto. E la cultura dovrebbe servire proprio a questo: a riconoscere la gravità delle situazioni. Andrebbero lasciate agli ignoranti, ai negazionisti, ai riduzionisti, ai minimizzatori, ai no mask, le fanciullesche o provocatorie recriminazioni sull’operato del governo, che ha, senza dubbio, enormi responsabilità su errori, ritardi, inefficienze, disfunzioni, ma ora, al punto in cui siamo, non può fare altro se non ridurre con restrizioni la diffusione del coronavirus. Ogni J’accuse ormai è tardivo e perde senso se fatto in un momento critico. Andava detto prima. La cultura doveva svegliarsi e insorgere in modo netto (e non lo ha fatto se non in sporadici casi), a gran voce, sui giornali e nei teatri, usandoli come amplificatori di voci del dissenso, quando il governo apriva le discoteche e sponsorizzava la sicurezza – ovviamente non garantita – delle località balneari e turistiche per incrementare un turismo d’assalto che ha contribuito alla serpeggiante circolazione del virus già durante l’estate. La cultura doveva muoversi prima. Ora no. Ora è tardi. Ora bisogna chiudere per “non morire”.
“C’è una profonda differenza tra la lotta per non morire e la lotta per vivere. E gli uomini quando lottano per non morire, si aggrappano con la forza della disperazione a tutto ciò che costituisce la parte viva, eterna della vita umana, l’essenza, l’elemento più nobile, più puro della vita, la dignità. Lottare per vivere. Soltanto per vivere. Non è più lotta per la dignità umana”. (C. Malaparte, “La pelle”)
Nella lotta per “vivere” si diventa pronti a tutto pur di veder garantito il proprio posto nel mondo, la propria sicurezza. Ecco, la lotta per “vivere” diventa guerra tra poveri, guerriglia urbana, aggressione, vetrine spaccate, lacrimogeni per strada. E chi fa la rivoluzione della “cultura”, ora, indirettamente, soffia su questo fuoco.
La rivoluzione della cultura è figlia della lotta per “vivere”, è il tentativo estremo di mantenere disperatamente una centralità compromessa dai tempi della “perdita dell’aureola”, è una rivendicazione ideologicamente e colpevolmente nascosta dietro la salvaguardia della nobiltà della cultura, l’ultimo baluardo a dover crollare, ma maldestramente difeso; è l’ammissione latente della sua superiorità rispetto a tutti gli altri settori che invece – questo è il sottinteso – possono essere chiusi e liquidati perché dedicati a qualcosa di basso che non è lo spirito. Insomma, proclamata in questo momento così critico, è la difesa strenua dal sapore crociano della superiorità delle “anime belle”, che in genere sedute in poltrona, da qualche sede universitaria di prestigio, con contratti editoriali sicuri, discettano sul bene e sulla virtù proclamando a voce la rivoluzione culturale e mantenute nei fatti della fatica quotidiana di chi poi davvero va a rischiare il contagio in metropolitana, nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali, nel backstage dei teatri.
E in una lotta così si perde la dignità.
Invece per salvarla, la dignità umana, noi tutti dobbiamo tendere a “non morire”: solo così non arriveremo al punto di dover scegliere se vale di più salvare la vita di un giovane o di un anziano, solo così non saremo costretti a dover stabilire gerarchie tra vite di serie A e esistenze di serie B. Lottare per “non morire” vuol dire salvare la dignità di tutti, anche dei popoli dimenticati, sommersi dalla povertà e dalla guerra, quelli che forse non avranno mai vaccini e che si salveranno solo se noi questo virus smettiamo di farlo circolare. Lottare per “non morire” è andare oltre l’orizzonte dell’oggi e dell’io, vuol dire sapere che dalle mie scelte, dal mio sacrificio, rinascerà una vita collettiva degna di questo nome. E per questo non bastano i distanziamenti, i gel, le mascherine, i protocolli ovunque rispettati, dai teatri, alle scuole, alle palestre. Ci vuole il sacrificio, bisogna rinunciare, ciascuno a qualcosa. Lottare per “non morire” è un atto di responsabilità collettiva. L’impegno a “non morire” ci dovrebbe vedere tutti coinvolti e non arroccati su posizioni ideologicamente costruite per difendere diritti di singole categorie perdendo così di vista il solo dovere che ci accomuna: “non morire”.
Lottare per “non morire” è un dovere, pone questioni etiche, da cui dipenderanno anche scelte economiche. Lottare per “vivere” è un diritto. Giusto. Ma presuppone il “non morire”.
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