Immigrazione
Lo Stato le nega la cittadinanza: “non sa l’italiano”. Ma lei è un’interprete
Trieste, febbraio 2019. Laura (nome di fantasia) vive nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia da quattordici anni, dove studia e lavora. Ma non è italiana e per qualcuno non merita la cittadinanza. La motivazione del rifiuto? Una questione di “lingua”. Laura “non conosce l’italiano”, dicono dalla Prefettura.
La donna si è diplomata al liceo classico di Fiume, a circa 75 km da Trieste, in Croazia. Ha studiato lingua e letteratura italiana al pari di quella croata, in un liceo italiano e che ha la stessa validità di una qualsiasi scuola superiore triestina, romana, milanese. Oggi ha trentadue anni ed è iscritta alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trieste, ha finito gli esami ed è prossima alla laurea. Per pagarsi gli studi e per passione lavora, peraltro, come interprete in Tribunale e per la Polizia.
L’Italia è il paese in cui vuole vivere e in cui sta costruendo la sua vita, per questo ha inoltrato la domanda per la richiesta della cittadinanza per residenza. La Croazia fa parte dell’Unione Europea dal 2013 e per i cittadini di paesi dell’UE il requisito per ottenere la cittadinanza italiana con questa modalità è risiedere nel nostro paese da almeno quattro anni. Ma c’è un altro requisito che dal dicembre 2018 viene per legge richiesto: quello di conoscere la lingua italiana. Tutti i richiedenti devono infatti dimostrare con autocertificazione oppure copia autentica del titolo di studio di avere una conoscenza dell’italiano pari al livello B1, che possono aver acquisito anche in scuole accreditate dal nostro paese. Laura ha ampiamente dimostrato di aver studiato e di conoscere l’italiano allegando alla sua domanda i documenti richiesti. Il fascicolo è completo.
Come mai però la motivazione del rifiuto che la Prefettura di Trieste le ha comunicato è che non conosce l’italiano? Come fa un’interprete che collabora con il Tribunale, diplomata in un liceo italiano all’estero, che studia in una facoltà di un’università italiana a non conoscere la lingua italiana? I presupposti per negare la cittadinanza a Laura, ancora oggi valutata sempre nell’interesse dello Stato e della comunità nazionale ad accogliere come nuovo cittadino il richiedente e mai diritto del richiedente, sono inesistenti.
Se comunque lo stato (la minuscola è d’obbligo) non è obbligato a concedere la cittadinanza ma vi è semplicemente l’obbligo di valutare l’opportunità nell’interesse collettivo di concederla, sarebbe però obbligatorio che le motivazioni fossero perlomeno basate su questioni concrete e reali. Nel caso di Laura questo sembra non essere avvenuto affatto.
«A Roma ormai si fa così», commenta qualche funzionario, perché è il Ministero dell’Interno che alla fine decide, non le prefetture di tutta Italia che si occupano sostanzialmente di adempiere al raccoglimento, al controllo, e alla valutazione delle domande. E se a «a Roma ormai si fa così» e le prefetture, in questo caso quella di Trieste, «rispondono a ordini superiori», allora, forse, abbiamo un enorme problema, o almeno un grosso dubbio: c’è e ci sarà nel nostro paese una linea generale di chiusura rispetto alle domande di cittadinanza? Il clima sovranista che si respira oggi, quanto influenza anche le pubbliche amministrazioni, oltre alla società tutta?
Laura forse impugnerà la sentenza al Tar del Lazio, anche se il percorso sarebbe tortuoso, dispendioso in termini economici e molto lungo, oppure, se ne avrà opportunità, chiederà conto al Ministero dell’ingiusta motivazione per cui le è stata negata la cittadinanza diffidandolo. Magari qualcuno le dirà che è stato solo un errore. L’errore però è che «ormai a Roma si fa così».
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Foto di copertina: Prefettura di Trieste
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