Immigrazione
Lo ius soli tra razzisti e radical chic
Chi accusa i sostenitori dello ius soli di essere radical chic non ha tutti i torti, perché in effetti qualcuno lo è davvero. Dire che i migranti ci servono per raccogliere i pomodori è un’affermazione da snob e spesso da razzisti. Perché lo ius soli non è destinato ai nuovi schiavi e alle vittime del caporalato: il loro processo di emancipazione passa per altre strade, purtroppo molto più difficili.
E’ vero che la percentuale di stranieri in agricoltura è superiore che in altri settori economici (nel 2015, secondo il Ministero delle Politiche Agricole, erano circa 135.000 i lavoratori di origine straniera impegnati nell’agricoltura, il 16% del totale), ma sarebbe semplicistico esaurire in questi termini il problema. Solo una parte minoritaria di coloro per i quali è stato pensato lo ius soli aspira – o è costretta – a raccogliere la verdura.
La storia dei migranti raccoglitori di pomodori è una visione del fenomeno migratorio che ha le stesse caratteristiche di quella dei razzisti: le migrazioni sono viste in ultima analisi come emergenze (e quindi ci si deve difendere dal pericolo che ci minaccia, o al contrario si deve provare compassione tra un cocktail e un cineforum) e così anche la legislazione sugli stranieri raramente ha un orizzonte e una progettualità che vadano oltre la risoluzione di un “problema”. E’ evidente che c’è la dimensione emergenziale, legata alle guerre, alle carestie e alle crisi politiche, che accrescono il fenomeno, ma c’è anche una questione più strutturale, che, con variabili nel tempo, non ha conosciuto sosta nei secoli. Si migrava quando i mezzi erano cavalli e trireme, si migra ora in aereo o in nave. L’Italia, che ha sempre vissuto questi fenomeni come ricchezza, dovrebbe essere il paese con minori barriere culturali, eppure capita spesso di sentire un siciliano dai tratti arabi, un calabrese dal sangue albanese, un padano con cognome calabrese o siciliano, esprimersi in modo volgare contro coloro che stanno percorrendo le stesse strade dei propri genitori o dei propri avi. Saremmo un popolo migliore se fossimo rimasti “incontaminati”, dai tempi dei sanniti o di Golasecca, senza greci, longobardi, arabi, normanni?
Lo ius soli (per di più molto annacquato) e lo ius culturae sono rivolti a quel bambino di genitori cinesi che parla in italiano con accento milanese, a quella ragazzina velata di genitori algerini che organizza le uscite con le amiche figlie degli ex migranti del sud, a quel giovane di genitori ghanesi che in metropolitana ripassa le guerre di indipendenza italiane per l’interrogazione a scuola, a quella ragazza di genitori filippini che ride guardando un filmato su youtube con le sue compagne di scuola, al bambino di genitori peruviani che scambia le figurine Panini con gli amichetti, ai giovani figli di russi, ucraini, nigeriani, giapponesi e bengalesi nati in Italia da genitori qui regolarmente e rientranti in particolari parametri previsti dalla legge.
Non è facile retorica, è la realtà di tutti i giorni e chi non la vede è perché non prende i mezzi pubblici o non va ai consigli di classe dei propri figli: questi ragazzi sono italiani e nella grande maggioranza dei casi la loro patria sarà l’Italia. Farli crescere per anni con l’idea di non esserlo o di diventarlo per gentile concessione dello Stato a 18 anni, creargli quei piccoli ma fastidiosi ostacoli burocratici che nascono dal non essere cittadini, farli sentire diversi da quei compagni di classe o di oratorio che tra l’altro non li considerano diversi, tutto questo può favorire quel senso di estraneità allo Stato e al bene comune che contribuisce a comportamenti devianti. E’ lo stesso fenomeno di quei giovani italiani “di sangue”, residenti nei quartieri ghetto di alcune metropoli, dimenticati dalle istituzioni e trattati come problema dai servizi sociali, che hanno maggiori possibilità di sbagliare strada nel corso della loro vita. Perché creare tanti piccoli ghetti etnici? Che vantaggio pensiamo di trarne? Perché la cittadinanza per queste persone italianissime nei costumi, nella cadenza, nella cultura, i cui genitori pagano le tasse nel nostro paese, dovrebbe essere più difficile che per un sudamericano che non ha mai messo piede nel nostro paese, ma i cui avi tre generazioni fa sono partiti da un’Italia che, per cultura, lingua e mentalità non esiste più?
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