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The Crown Diaries / 12
Era già passata quasi un’ora buona, da quando Mia, la femmina di labrador che Jonas aveva adottato in maniera un po’ rocambolesca, era uscita di casa per andare a cercare un medico al pronto soccorso. Jonas non stava bene, da giorni ormai, e il terrore si era impadronito di lui, nella triste epoca del Corona. Sono infettato? sono stato contagiato? Ma da chi, che non ho visto praticamente nessuno negli ultimi tre mesi, giusto il droghiere, ma sempre con una distanza di metri, con i guanti e la mascherina. Non sarà mica stato il vecchio padrone di Mia, da lui chiamata Cora, quando è venuto a cercare il suo cane scomparso? ma non siamo mai stati a stretto contatto, lui era decisamente lontano dal cancello, e io ero nel mio giardino, d’accordo, senza protezioni, mi pare quasi impossibile, sarebbe una sfiga pazzesca. E che faccio se sono davvero malato? Una spada di Damocle pende sul mio capo!
Si sentiva così, a mezz’aria, come un sasso lanciato in un pozzo, in attesa che si sentisse il rumore dell’impatto sul fondo, con il suolo o con l’acqua, in attesa di sapere se quel pozzo fosse ancora attivo e ci si potesse abbeverare, oppure fosse secco e le possibilità di sopravvivenza ridotte al lumicino, morire di sete, morire di virus, solo con un cane, che però ora non era ancora tornato. Magari sta vagando per i campi, ha perso la strada, non riconosce più la via giusta, prima per l’andata e poi a ritroso per il ritorno, tutto dipendeva da lei, perché Jonas in paese non lo conosceva quasi nessuno, certo non al pronto soccorso dove lui non si era mai recato personalmente. Il medico, se Mia l’avesse trovato, e se anche si fosse fatto convincere a seguirla, pure questa un’impresa ardua per un povero cane, non sapeva certo la direzione giusta per arrivare a casa sua, per visitarlo, per curarlo, nel caso.
Poi finalmente, verso l’imbrunire, quando le sue speranze si erano fatte quasi vane, quando la tristezza si stava facendo strada, quando lo sconforto si stava impossessando del suo cervello, improvvisamente sentì un lontano abbaiare, che Jonas presto attribuì alla sua Mia, e l’aspettativa che, anche senza medico, lei fosse tornata lo fece star meglio, quasi sorrise pregustando il momento in cui l’avrebbe vista entrare rapida dalla porta del giardino, scodinzolando felice.
Sei tornata, dunque, meno male! Temevo ormai il peggio. Mia però non entrò, si fermò sulla soglia, voltandosi, come per aspettare qualcuno che la seguiva, più in lontananza. E allora anche Jonas lo vide dalla finestra, un giovane uomo con un camice verde, un po’ trafelato per tenere il passo veloce del cane, che aveva urgenza di portarlo da lui. Quasi benedicendolo, si fece fare alcune veloci analisi; il dottore aveva portato con sé qualche attrezzo medico per poter compiere una rapida diagnosi del suo malessere. E presto arrivò il responso: niente di serio, suppongo, febbre alta certo ma pochi sintomi certamente legati al virus, resti a casa ancora una decina di giorni e le passerà tutto, almeno speriamo. È fortunato ad avere un cane del genere, si è fatto capire quasi subito, intimandomi quasi di seguirlo, so che i labrador sono famosi per questa loro capacità di parlare quasi agli umani, un istinto innato, e lui non è da meno.
Lei, lo corresse Jonas.
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