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L’abito non fa lo studente o del dress code che non fa crescere davvero

10 Maggio 2018

Quando frequentavo le scuole elementari, per i primi tre anni di corso, eravamo obbligati per regolamento scolastico a indossare il grembiule bianco. Alla base dell’imposizione di questa divisa stava il presupposto che i bambini, in una delle loro prime esperienze di socializzazione in un gruppo organizzato, non dovevano essere influenzati da marchi, accessori, mode e tendenze che potevano in qualche modo rimarcare differenze sociali ed economiche in classe. Ho sempre detestato il grembiule e, già al tempo, era assai facile rendersi conto che le differenze che non passavano per jeans e maglietta, venivano tranquillamente sancite dal modello di zainetto, dall’auto con cui si arrivava a scuola, dalle scarpe, dai giocattoli di cui si parlava durante l’intervallo, dai luoghi che si frequentavano con la famiglia nel tempo libero o in vacanza. La me seienne aveva perfettamente chiaro in testa che esistevano bambini che trascorrevano l’estate in città e altri che andavano ai Caraibi e tutto questo era evidente a prescindere dal tentativo di omologare la “base di partenza” di noi tutti.

Vistoso salto temporale. Qualche giorno fa è apparsa sui quotidiani nazionali la notizia della decisione, da parte della dirigente dell’Istituto comprensivo di Moncalieri, di vietare in classe canottiere, shorts e minigonne troppo corte. Il motivo? Non solo un maggior decoro generale, ma anche un’importante lezione di vita per i ragazzi che, a partire dalla scuola, dovrebbero imparare a presentarsi con un abbigliamento appropriato ad ogni contesto.

La scelta ha sollevato un ampio dibattito dentro e fuori la rete: chi sostiene che si tratti di un giusto provvedimento con importante valenza pedagogica, chi pensa invece che si tratti di una limitazione insensata e controproducente alla libertà di espressione che nei ragazzi, soprattutto nella delicata fase dello sviluppo, passa anche per l’esplorazione del sé attraverso la propria immagine.

Sulla questione occorrerebbe forse partire da una domanda, la stessa che, anni fa, avrei posto di fronte alla scelta dell’imposizione del grembiule: l’educazione passa da un regolamento o da un ragionamento? Certamente i ragazzi hanno bisogno di regole, per imparare a stare insieme, per relazionarsi con i coetanei e con gli adulti, per rispettare gli ambienti comuni, ma queste regole, per quanto riguarda il comportamento, sono trasmesse attraverso un percorso che – dalla famiglia alla scuola – passa appunto per l’educazione, più che per l’imposizione. La differenza sembra sottile, ma cambia la sostanza, ovvero come queste regole vengono recepite, se come un adeguamento formale a qualcosa che non si comprende o come scelta consapevole per una migliore convivenza.

In sintesi si tratta di decidere se i bambini, tolto il grembiule in quarta elementare, guarderanno con occhi diversi il compagno di banco solo perché indossa una felpa del fratello maggiore o se non baderanno a un logo sulla maglietta al momento di scegliere con chi giocare durante l’intervallo.

Lo stesso vale per i ragazzi più grandi ai quali la scuola, così come la famiglia, dovrebbe insegnare a fare scelte consapevoli, ma – pur sempre – a scegliere. E la scelta non è possibile in un contesto d’imposizione. Una ragazza che si presenta con una gonna troppo corta a scuola può essere disattenta rispetto alle regole (non scritte) del luogo in cui si trova, oppure può aver deciso che, a prescindere da qualsiasi ragionamento di “opportunità” vuole indossare comunque quella gonna. Assumendosi la responsabilità di questa sua scelta. Si sa però che quest’epoca non è molto portata per l’insegnamento della responsabilità e preferisce tutelare, spesso in modo paternalistico, i ragazzi.

Ulteriore balzo temporale. Ai tempi del liceo, come quasi sempre accade, la mia classe si divideva in categorie: modaioli, alternativi, sportivi… Ciascuno aveva un “ruolo” che si rifletteva, in molti casi, anche nell’abbigliamento, nel trucco, nelle scelte di stile (colore dei capelli, piercing e tatuaggi, accessori). I professori avevano atteggiamenti diversi a seconda del loro personale percorso e, ovviamente, del loro piano “valoriale”. C’era chi sorrideva di fronte a un look molto vistoso, c’era chi osservava chi lo sfoggiava con maggior severità. Ricordo che una mattina, sicura di non poter essere interrogata in greco perché ancora mancavano parecchie persone prima di “ricominciare il giro”, avevo indossato un maglione decisamente alternativo e decisamente non in linea con il gusto dell’allora mia professoressa. Quando sono entrata in classe e ho visto che le persone ancora da interrogare erano tutte strategicamente assenti, ho capito subito chi sarebbe finita alla cattedra. Conoscevo la regola non scritta: se ti vesti in modo “trasgressivo” finisci interrogato e dovrai dimostrare di essere preparato. Forse più degli altri. Mi sono alzata, ho fatto la mia interrogazione al meglio, sono andata al posto. Lo stesso valeva per altre scelte (aver occupato la scuola, partecipare a manifestazioni, organizzare assemblee): sapevo che avrebbero comportato un diverso atteggiamento (positivo o negativo che fosse) dei professori nei miei confronti.

Grande lezione di vita, perché – nel quotidiano – nessuno si approccia in modo neutro a ciò che siamo e alle nostre eventuali competenze: il nostro atteggiamento, il nostro carattere, lo stile, il modo di parlare e di vestire influenzano in modo sostanziale il giudizio. Sta a noi decidere (e imparare a scegliere) come esercitare la nostra libertà di espressione. Quanto e quando.

Torniamo alla vicenda della scuola torinese. La preside ha in più passaggi sottolineato come i ragazzi debbano imparare che, nella vita, esistono capi d’abbigliamento più o meno adatti a rappresentarci in un dato contesto, come – ad esempio – un colloquio di lavoro. Come faranno però a capire a quale regolamento attenersi scrupolosamente una volta fuori dalle mura scolastiche se non avranno, con la necessaria esperienza, deciso come scegliere? Si fa presto infatti a dire colloquio, ma ci si dimentica forse che non tutti i colloqui sono uguali, come non tutti i luoghi di lavoro. Ci si dimentica inoltre che una persona può decidere di dare la priorità alla sua personale espressione, prima che all’accondiscendenza rispetto a un modello. Si dimentica inoltre che è proprio di una persona (e non di una macchina) mettere in discussione le regole, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Si tratta di soggettività e proprio la formazione del soggetto (non del buon dipendente, del buon imprenditore, del buon free lance) dovrebbe essere il principale compito della scuola. Portare i ragazzi a imparare a decidere prendendosi, consapevolmente, le proprie responsabilità. Fossero anche quelle di accettare, pur d’indossare una minigonna, di dover rispondere ad una domanda in più durante l’interrogazione. Perché, per prepararsi al mondo adulto e ai compromessi che, di necessità, si dovranno fare, non c’è base migliore che avere ben presente ciò che si è e, a partire da quello, fissare i confini oltre i quali l’adeguarsi a “ciò che è stabilito” non può andare. Ciò che non è sacrificabile anche se – sappiamo – la sua difesa costerà forse grandi sacrifici.

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