Ambiente
La credibilità dello chef e dei suoi derivati
Si è appena concluso Identità Golose 2015, congresso internazionale di cucina che da qualche anno si tiene a Milano. Una tre giorni di eventi, show cooking, conferenze sul cibo, frequentato più che altro da “gastrofighetti” vestiti in modo singolare in cerca di un selfie con lo chef del momento.
Quest’anno la kermesse si è svolta alla vigilia di Expo ma a parte un intervento più seducente che interessante del tre stelle Michelin Massimo Bottura su come non sprecare il cibo, parevano tutti impegnati a mostrare se stessi, memorabile la delirante lezione dello chef stellato Davide Scabin sul “numero di Dio” – 1,6180 – la costante di Fidia che ha affascinato e ispirato grandi scienziati e artisti da Pitagora a Leonardo. Quel rapporto numerico, la ‘perfezione matematica’ che sta alla base dell’armonia, Scabin la applica disegnando triangoli e rettangoli nel piatto. Bah…
Ho già scritto sull’importanza di “fare cultura” da parte degli chef. Oggi più che mai la figura dello chef non è più identificabile solo con il preparatore di cibi ma deve diventare custode dei valori della tradizione e al contempo dell’innovazione in cucina, deve educare a mangiare, controllare attentamente la provenienza delle materie prime, preoccuparsi di offrire eco-cibo.
In un prezioso libro dal titolo “La leggenda del buon cibo italiano” scritto dal giornalista Paolo Conti, si affrontano argomenti che vanno dal potere della grande distribuzione sulla filiera alimentare, all’analisi delle emergenze sanitarie causate dalla sofisticazione del cibo, fino alla contrapposizione tra tecno-cibo ed eco-cibo ovvero strapotere dell’industria alimentare contro la verità intesa come “resistenza” del cibo sostenibile.
La società dello spettacolo ha prodotto dei “leviatani” mediatici, sopra tutti Masterchef. Attorno al programma ruota molta dell’industria del tecno-cibo, i mentori del cibo industriale hanno allevato i loro ambasciatori e contaminato il pubblico attraverso messaggi pubblicitari alquanto discutibili. Facciamo i nomi.
“In cucina ci vuole audacia” recita l’ambasciatore della patatina, Carlo Cracco chef con due stelle Michelin.
Pomodori, robiola, liquori e polli da allevamento sono la “heimat” di Bruno Barbieri, uno chef di navi da crociera miracolato dal vecchio tubo catodico prima di diventare una specie di tossicodipendente della pubblicità impegnato a spalmare creme di robiola su una lasagnetta croccante.
Il detto “pecunia non olet” vale anche per i vecchi partecipanti di Masterchef riprogrammati per veicolare messaggi mediatici sulle proprietà e i valori del tecno-cibo, per loro solo parole di commiserazione ma li possiamo reputare innocui oltre che anonimi tranne in un caso: Tiziana Stefanelli che nello spot di un dado ama declamare frasi di una certa rilevanza: “è difficile dire qual’è il miglior piatto d’Italia ma in tutti c’è un ingrediente immancabile” oppure il capolavoro “senza dado non c’è caponata“. Colpirne uno per educarne cento.
Nessuna pietà intellettuale va mostrata per coloro che il cibo lo assaggiano, lo cucinano, ne diffondono il verbo e lo battezzano nei blog personali: sono i critici gastronomici come Davide Paolini che la domenica conduce Il gastronauta un’interessante e utile trasmissione su Radio24 mentre il resto della settimana fa da giudice in un format sponsorizzato da una nota marca di polli (ancora polli).
Sono i blogger come Chiara Maci, cito dalla sua bio: “Una laurea in Giurisprudenza, un Master, un diploma di Sommelier AIS e un diploma ALMA (la scuola di cucina di Gualtiero Marchesi) presso la Summer School. Ho lavorato prima in agenzia di comunicazione, poi in azienda, nel marketing aziendale, poi ho mollato tutto e ho iniziato a cucinare… Oggi, lavoro come consulente per le aziende food, partecipo al programma televisivo Cuochi e Fiamme come food blogger e giurata, ho scritto un primo libro di ricette con mia sorella Angela con cui gestisco il primo blog Sorelle in Pentola, sto partorendo il mio secondo libro a cui sono già particolarmente affezionata e tante altre cose vorrei dirvele, ma ancora non posso.” Per svelare il segreto di Chiara è sufficiente guardare lo spot in tv che la vede protagonista.
La lista termina qui, non ho citato Joe Bastianich per non disturbarlo mentre conta i 196 strati di sfoglia che compongono la pasta da lui pubblicizzata.
Dissapore è un magazine online, (credo di identificarlo cosi) il cui sottotitolo recita “niente di sacro tranne il cibo“. A mio avviso rappresenta un’importante presenza nel mondo della cucina, attento osservatore e fustigatore di comportamenti discutibili. In un pezzo di Martina Liverani che titola “Credere agli chef?” e dal quale ho preso spunto per scrivere questo articolo, ci si pone una domanda precisa: “a chi dobbiamo credere? Allo chef stellato che ci insegna a mangiare bene e che fa della qualità delle materie prime il suo stendardo o allo stesso chef che dietro la telecamera pubblicizza prodotti industriali con improbabili spot?”
Il mondo della cucina assomiglia a un quadro di Hieronymus Bosch, ricco di personaggi singolari, molto furbi, inclini alle mode e qualche volta cialtroncelli. Nello stesso quadro però ci sono quelli con la schiena china sui piatti che lavorano con una passione quasi autistica, li riconosci perchè hanno una luce negli occhi. Sono chef, appassionati di gastronomia, antropologi culinari, piccoli produttori con le loro meravigliose storie da raccontare, innamorati del prodotto, del piatto, dei profumi e dei sapori della cucina. Ricercano, sperimentano, proteggono, crescono e allevano nel segno di quel sogno ancora sotto forma di miraggio che si chiama sostenibilità.
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