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Indoeuropa – Un’anteprima da Nuovi Argomenti

di
29 Novembre 2016

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“E’ un fatto ben triste che l’Europa si debba scoprire soltanto andandosene”.
Ore Giapponesi, Fosco Maraini

A dicembre l’Indonesia è un paradiso afoso. Oltre il tramonto e l’Oceano, non esiste niente; ci sono però le palme, le noci di cocco tagliate, il batik e questo sentimento di vacanza assoluta, perenne nei locali, che si declina in nasi goreng improvvisati, mangiati agli angoli delle strade in grandi foglie impermeabili e senza nome, in gigantesche sigarette ai chiodi di garofano e in un’aria di incenso e di disperazione.
Siamo qui da due settimane, ma non potrei essere altrove. L’attesa di niente che trionfa in Indonesia è contagiosa; plasma il tempo e le aspettative.

Anche adesso, nella grande sala di legno e di stoffe, mentre un ubriaco continua a parlare a mio padre, c’è l’ansia della rivelazione. E niente accade.
L’uomo mi guarda. Ha i capelli rasati da un lato, un lungo ciuffo biondo platino che gli copre il viso burchiellato, le labbra sfondate da un cazzotto che ha tumefatto anche parte del mento; il ricordo sopravvive in una macchia rossa, che pare una voglia di fragola.

“Where are you from?” chiede, agitando un bicchiere vuoto; è un’inconsapevole parodia dell’ubriaco. Il tatuaggio di una tigre gli si avviluppa intorno al braccio, molliccio e abbronzato.

Poco fa, quando si è seduto al bancone accanto a noi, con odore di zolfo e di vomito, mentre mangiavamo spaghetti al tonno e capperi, mia madre e mio fratello se ne sono andati; loro fanno sempre così, odiano la miseria degli altri.

Lo ignoriamo, ma lui insiste: “Where are you from?”.

Di incontri così, sfortunati e grotteschi, all’estero se ne fanno a migliaia; quando viaggi in un Paese i cui abitanti hanno un colore della pelle diverso dalla tua, i bianchi credono di essere tutti amici. E anche gli altri turisti trovano confidenze indesiderate.

Mio padre continua a mangiare.

L’uomo mi fissa, ha gli occhi lunghi e verdi, velati.

“Taranto” rispondo.

La sala del ristorante questa sera è deserta. Domani è Natale, e tutti temono attentati dopo la bomba che a una manciata di chilometri da qui, qualche anno fa, ha squartato una discoteca e ucciso.

“What’s that?”. Il suo inglese è slabbrato, perde precisione a ogni lettera.

“Our city!”.

Lui scuote la testa. “Never heard” mormora, categorico. Fa un gesto rapido al cameriere, e dopo qualche istante, il viso cosparso di sudore e di paura, questo torna con un boccale di birra pieno, che a ogni passo ondeggia e bagna di spuma i bordi e il pavimento di legno chiaro; è un ragazzo indonesiano qualsiasi, ne vedi a decine nelle baraccopoli e nei centri commerciali, ha i capelli a scodella neri, gli occhi scuri, selvaggi e speranzosi. Indossa un completo bianco, troppo grande per lui.

L’ubriaco – che da lì a qualche minuto scopriremo chiamarsi Maual, 37 anni, una moglie che l’ha piantato la settimana prima dopo averlo scoperto con un’altra donna, presumibilmente una prostituta locale, due figli di cui non si ricorda momentaneamente il nome, una lunga cicatrice seghettata sul braccio destro, frutto di un arma da taglio e non di un incidente – continua: “Where is?”.

“Puglia”.

Lui mi guarda ottuso.

“In Italy” aggiungo.

“Italy near Paris?”.
Ho undici anni. Sono nata a Taranto, in via Cagliari 32/A. Ho undici anni, lunghi viaggi d’estate e una settimana d’inverno, in giro per il mondo. So che il pianeta calpestabile è immenso, ma il mondo per me comincia con il Ponte di Pietra e finisce con il Ponte Punta Penna. Ed è assurdo che questo alcolista qui non conosca la mia città. La mia città con sangue spartano, mito fondante della Magna Grecia e gloria del Mediterraneo.
“Paris is in France. We are in Italy” spiego, acchiappando un cappero dal piatto e infilandomelo in bocca, che tanto mamma non c’è. “This is Paris” dico, indicando una bottiglia distante, “This is Italy” aggiungo puntando l’indice al bicchiere, “This is Taranto” continuo per uno strano (e decisamente oggettivo) gioco delle proporzioni, facendo avanti il piatto.

Lui mi guarda stupito: “Italy like Athens?”.
La geografia secondo gli ubriachi ha molto a che fare con la mappatura di quelli che in Europa non sono mai stati. Ma io ho undici anni e credo che tutti abbiano chiari i confini che separano l’Italia dalla Francia o dall’Austria, che quando sei in viaggio sorridi al finestrino e preghi che la dogana non ti fermi e non controlli quello che è contenuto nel portabagagli.
“Are you crazy?” domando, seria. Mio padre mi mette le dita sulla mano, e i suoi polpastrelli sono caldi e odorano di estate. Immagino mia madre e mio fratello sulla spiaggia, a vedere il cielo che s’accende di stelle.

L’uomo sorride, con il viso che si deforma in una smorfia inebetita e malinconica. “Why?”.

“Italy is Italy, Athens is in Greece. We are from the South of Italy!”.

Lui annuisce, ma si vede che non ha idea di quello che sto dicendo, e neanche gli interessa. Perché tutto è lì, in quel posto indistinto che sta compreso fra il Portogallo e la Russia.

“And you?” faccio.

“Nara”.

“Where?”

“Nara, Japan”.

Un puntino in quel mondo che è il Giappone; potrebbe essere vicino Osaka, o appresso a Tokyo.

“You know?”.

Non so cosa rispondere. Nara è altrove. Nara è esattamente nello stesso posto – un posto confuso, luminosissimo, eterno – dove è contenuta Taranto.

“Japan…” provo, con voce sospesa, e non so come finire la frase.

Lui annuisce, e si scola la birra.

“And you, Europe?”.
Vorrei dirgli di no. Vorrei dirgli che io sono di Taranto. Lo hai mai assaggiato il riso patate e cozze? E la birra Raffo, la birra Raffo l’hai mai bevuta davanti al tramonto bella ghiacciata? (Questo lo dico anche se non l’ho mai fatto, perché tutti gli amici di mio padre giurano che non c’è niente di meglio di una Birra Raffo davanti al cielo infuocato dall’Ilva).

E poi mi guardo intorno, in questo mondo che profuma di incenso, con il Buddha che se ne sta davanti a me, scolpito in pietra e in legno, circondato da fiori e da promesse.
E di fronte a me c’è anche un altro uomo del mondo, con la sua faccia butterata, i suoi capelli rasati da un lato, gli occhi a mandorla, una camicia a fiori azzurra, con i fiori grandi e verdi che sembrano frammenti di un quadro scadente; e quest’uomo non sa dove sta Parigi, e dove sta Atene, e per un attimo tutto mi pare piccolo e indistinto; il mio universo per quest’uomo non conta niente.

E per un attimo, in tutta questa differenza, mi pare di ritrovare qualcosa che mi appartiene – uno spiraglio sottile, che irradia di luce l’intera conversazione, con mio padre che mangia e che già immagina la passeggiata notturna sorseggiando la noce di cocco – e che potrà fargli capire un poco di più di noi: una zattera sbagliata, alla deriva in quel piccolo mondo antico da cui proveniamo.
“Europe, yes” mormoro.

E allora l’uomo annuisce contento. Ordina un’altra birra, e poi comincia a parlare di sua moglie, che l’ha lasciato la settimana prima, dopo averlo scoperto con un’altra – “una bella ragazza bionda, ma sempre indonesiana” – in camera da letto.

Questo racconto è stato pubblicato su Nuovi Argomenti, nel nuovo numero L’Europa Quando Piove.

 

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