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Immuni. Storia di un flop
L’account Twitter ufficiale di Immuni ha pubblicato, ieri, i dati ufficiali degli utenti Immuni: nella migliore delle ipotesi, si arriva al 25,2% in Emilia Romagna. Media nazionale che non supera nemmeno il 20% (si arriva al 19,6%). Solo 9 Regioni e una Provincia Autonoma si attestano sopra il 20%, mentre 3 regioni e 1 Provincia Autonoma sono sotto il 15%. Dati decisamente sconfortanti che sanciscono il flop, al momento della terza ondata, dell’app.
La comunicazione è neutra, molto meno entusiastica rispetto a quando si festeggiavano gli 8 milioni di download dell’app: eppure, anche allora c’era ben poco da festeggiare (come segnalava giustamente Paolo Attivissimo): oggi, come allora, essere utenti Immuni non significa utilizzare l’app.
La stessa documentazione pubblica di Immuni, al paragrafo Operational Information, indica che la misurazione del livello di adozione non è solo «misurato in base al numero di download, una metrica in gran parte priva di significato, ma in base ai dispositivi che funzionano effettivamente correttamente» {1}.
Come ho già avuto modo di segnalare, fin da tempi non sospetti (in un convegno nel maggio 2020 – qui il video -ma anche, successivamente, negli atti del convegno {2} e anche qui) tutto dipende dal corretto funzionamento dei dispositivi: ciò comprende un determinante fattore umano.
Quindi, ciò che influisce è dovuto, in buona parte, alla responsabilità personale dei singoli utenti. Ma anche usare Immuni potrebbe non bastare, perché una volta ricevuta una notifica che segnala un contatto potenzialmente rischioso, l’utente è l’unico a sapere di quel rischio e potrebbe decidere di ignorarlo, per non incorrere in conseguenze potenzialmente dannose, socialmente o lavorativamente (cosa che le cronache di questi mesi hanno puntualmente riferito).
Inoltre, identificando solo un «contatto a rischio», ma dare pochissime informazioni (cioè la data in cui è avvenuto, e la certezza che gli smartphone delle due persone fossero a meno di due metri l’uno dall’altro per almeno 15 minuti) rende difficilissimo la ricostruzione di come può essere avvenuto il contagio (per esempio, l’app non saprà mai se tra le due persone vi fosse una parete o una barriera che renderebbe impossibile il contagio).
Recentemente, comunque, il Garante Privacy ha dato il via libera ad una modifica di Immuni che risolve un altro ostacolo al suo concreto utilizzo: in precedenza, per caricare i dati sui server, occorreva segnalare la positività ad un operatore della ASL che avrebbe sbloccato dalla piattaforma il caricamento dei dati.
Con le modifiche, chi risulta positivo «può interagire direttamente con il sistema di allerta Covid-19 inserendo, nell’apposita sezione dell’app Immuni, il codice CUN (codice univoco nazionale attribuito dal Sistema TS ai referti dei test diagnostici per SARS-CoV-2) associato a un proprio referto con esito positivo unitamente alle ultime 8 cifre della propria tessera sanitaria» (1 e 2).
Il resto credo rimanga un fattore culturale: avere un atteggiamento prudente, compiere delle rinunce, per la salute propria e collettiva è un dovere.
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{1} In originale: «it is possible to estimate the level of the app’s adoption across the country, not just measured by number of downloads—a largely meaningless metric—but by devices that are actually working properly. This information is very helpful, as the utility of Immuni depends heavily on its uptake within the population. Supported by these data, the National Healthcare Service can make better decisions in a number of areas critical to maximising the effectiveness of exposure notifications and providing optimal patient care. Such areas include product development, engineering, and communications»
{2} Pubblicati su ConsultaOnline pp 189-195.
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