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Greta e Vanessa: il dovere di essere felici, il diritto di fare domande
Il grado di imbruttimento della società, di un pezzo della nostra società, quantomeno, lo vediamo nel livore che accompagna una vicenda come quella di Greta e Vanessa. E, perfino, la loro liberazione. Quelli che su Facebook scrivono che sono due stronzette amiche dei dittatori e che non avremmo dovuto pagare per loro. Quelli che scrivono cose analoghe o peggiori, commentando sui giornali che riportano la bella notizia della loro liberazione. La notizia resta bella, perché due giovani vite restituite alla vita sono una bella notizia a prescindere dalle idee che professavano, dalla missione cui avevano deciso di votare la forza dei loro vent’anni. Essere contenti del fatto che presto saranno a casa è un dovere di chi sa restare umano, e doverlo precisare appartiene alla cupezza dei tempi che viviamo.
Un tempo in cui, poi, farsi legittime domande su quel che è successo rischia di essere perfino confuso con il cinismo brutale dei giudizi da cui siamo partiti. Facciamo appello alla razionalità che c’è, e c’è, e ci appuntiamo alcune perplessità sul caso di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo: per parlare dei fatti di oggi e anche di quelli di domani.
Il primo tema è antico: è stato pagato un riscatto? Da chi? A chi? A quanto ammonta? La domanda riporta all’antico dilemma: si tratta coi terroristi? Leonardo Sciascia, i radicali e Craxi dicevano di sì, Cossiga, Berlinguer e Andreotti dicevano di no. Almeno c’era un dibattito pubblico politico aperto ed esplicito. Oggi niente. Non se ne parla, né prima né dopo. La domanda resta in fondo quella. Si possono dare soldi ai terroristi (rossi, islamici, neri, ecc) in cambio di vite umane? La risposta non si può tranciare in 140 caratteri, e merita la complessità e i dissensi dei temi complessi. Però bisogna parlarne e decidere una linea, prendersi una responsabilità di fronte ai cittadini italiani (possibile vittime, sicuri contribuenti) e anche di fronte ai rapitori-terroristi di ogni colore e ordine. Si può perfino decidere di dire: “Guardate, di queste cose non si parla, perché sono questioni delicate e di intelligence, e ci riserviamo di decidere di volta in volta in base a criteri di sicurezza nazionale troppo delicati per essere messi in piazza”. È la soluzione estrema e meno trasparente: ma almeno in questi termini andrebbe dichiarata.
C’è poi un altro campo del dubbio, meno politico e più “privato”, che la storia di Greta e Vanessa riporta a galla. Abbracciare certe cause, affidarsi a mani improbabili, comporta dei rischi, anche gravi, anche letali. A vent’anni idealismo e incoscienza, per fortuna e purtroppo, si mischiano ancora con facilità, fino a comportare pericoli, costi e giudizi esorbitanti. Di questo bisogna essere coscienti, tutti noi: sia che il rischio ce lo assumiamo, sia che lo rifiutiamo, sia che ci pensiamo nella funzione di chi deve educare, sia che siamo concentrati solo sul fatto che – se uno stato paga – lo fa anche coi nostri soldi. Vanessa e Greta tornano a casa, e le accogliamo con le bandiere e i sorrisi alla finestra.
Sono state vittime del cinismo criminale di chi le ha rapite, ma lungo un percorso che – in quelle condizioni di precarietà e opacità dell’operazione di solidarietà di cui erano parte – non avrebbero dovuto imboccare. E questo sarà bene ricordarselo per evitare lo spavento e il dolore degli affetti più cari, e le ambiguità e i costi opachi a carico di una collettività sempre più incattivita. Che ormai parla la lingua dei peggiori terroristi, quelli che disprezza e dice di odiare.
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