Costume

Lettera sul paradosso del potere

13 Luglio 2020

Cara fb
non sono un attivista, non sono un militante. Non scendo in piazza a manifestare. Non m’impegno in marce oceaniche, in flash mob decisivi. Neppure in formidabili campagne culturali.

So che, nell’epoca del “fare”, questo è degno di disprezzo né ho intenzione di persuadere qualcuno del contrario; meno di tutti te che macini informazioni come un frantoio e mi annienteresti con i tuoi aggiornamenti in tempo reale.

Mi tengo prudentemente dalla parte del torto.

Geneticamente affine ai teppisti e ai matti percepisco una nemesi nell’esercizio della volontà di potenza e ne scorgo distintamente la sagoma anche in chi si attiva per appropriarsene. Una volta “al potere” si trasformerà in burocrate o in carnefice. Non mi pare un male ciò che altri definirebbero una catastrofe: appartenere a quella categoria di individui vocati alla neutralizzazione di ogni possibilità di successo personale. Nei quali l’intelligenza e il talento – quando ci sono e pur se in quantità modesta- si trasformano puntualmente in altrettante garanzie di insuccesso. Uomini che esistono appena e che, qualora si giunga a percepirne la presenza, saranno qualificati con il più infamante degli epiteti: perdenti. Nel migliore dei casi li si eviterà accuratamente e più spesso li si emarginerà deliberatamente.

Ma sono loro miei compagni di percorso ed hanno, per me, valore inestimabile. Non perché siano migliori, per scelte eroiche, di quegli altri ai quali doti orecchiabili ed elasticità morale hanno consentito notevole appetibilità commerciale ma proprio perché, ad essere prezioso, è ciò che, forse solo accidentalmente, li ha resi quel che sono. Un elogio della sconfitta – e della dissipazione che comporta – risulterà indigesto a tutti. Non solo ai pezzenti del “pensiero positivo” e del bicchiere mezzo pieno – con il loro confucianesimo edulcorato e la loro teleologia in tutù – ma anche a quei praticanti del Sol dell’Avvenire ai quali niente che non sia “Meta Finale” e “Presa del Potere” appare degno di considerazione. Non potrei tuttavia argomentare ciò che si dispiega solo come un’ombra, con le sue ali di corvo, su ogni cosa che scrivo. Posso solo, se ti accontenti, additarti il corvo. Chi sente il potere come un’offesa che lo chiama in causa, personalmente, con il suo nome proprio e non da spettatore (che, con altruistica generosità, s’indigna); chi ne percepisce il puzzo quotidiano anche quando si camuffa da “tolleranza” e “rappresentanza democratica”; chi per tutta la vita lo ha sentito bruciargli gli occhi e la pelle, sa benissimo che la sua è una causa persa. Perché non si lotta il potere in vista della sua “conquista”: anzi è di questa dolorosa aporia che si nutre la bestia. Non si combatte “per” lui. Si combatte unicamente “contro” di lui.

Paradosso doloroso e inevitabile. Eppure sospetto che solo in questa snervante, quotidiana, ingrata fatica risieda ciò che fa, del vivente, un uomo.
Senza nulla a pretendere
ur

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