Filosofia

L’erotismo di una cultura che si schiera

26 Agosto 2022

Caro Cigno Nero,

dove sono finiti gli intellettuali? A molti di noi mancano quelle figure di riferimento che un tempo potevano rassicurarci con la loro autorevolezza. Per qualunque dubbio ci confrontavamo con chi poteva aiutarci a riflettere meglio offrendoci una chiave di lettura dei vari problemi. Oggi ci si rivolge all’onnisciente Google, che sembra avere una risposta per tutto e tutti, addirittura in pochi secondi. Quindi è facile incontrare degli intellettualoidi che, solo per posa, ostentano una raffinatezza culturale posticcia. E allora: c’è ancora bisogno degli intellettuali?
Nella terza puntata della trasmissione televisiva “Dilemmi”, di G. Carofiglio, il confronto, molto corretto, tra Walter Siti e Stefano Massini, sul ruolo odierno dell’intellettuale, si è concluso con la proposta di un atteggiamento dialogico, piuttosto che assertivo, da parte di chi, senza voler imporre il proprio pensiero agli altri, come fa chi ritiene di possedere la verità assoluta, presenta le proprie idee in forma di domanda aperta ad ulteriori riflessioni, in modo che la costruzione della “Verità” scaturisca da una relazione culturale.
Nell’antichità classica si riteneva che fossero i filosofi i veri intellettuali, con spiccati interessi culturali, amanti del sapere e della bellezza. Oggi, in un appiattimento generale di gusti e costumi, come si può riconoscere chi si dedica con continuità e passione al lavoro intellettuale?
Che si può dire ai tanti che, per pigrizia mentale o per lacune culturali manifestano insofferenza per l’approccio filosofico ai problemi esistenziali, convinti che alla presunta astrattezza della filosofia bisogna contrapporre la “concretezza” delle scienze esatte?

Emanuele

 

Caro Emanuele,

In “Ritratto di Kant a uso di mio figlio” il biochimico e filosofo della scienza Massimo Piattelli Palmarini racconta di aver imparato a camminare da solo tenendosi al colletto inamidato di suo padre: “ma mio padre dentro non c’era. Tenendolo tra le mani per le sue due estremità, nel vuoto, dovetti trovare non so quale appiglio immaginario, e fare i primi passi, sostenuto in realtà solo da me stesso, tramite il colletto”.
Cosa c’entra un colletto inamidato con gli intellettuali? Quello che di solito tendiamo a vedere nella figura dell’intellettuale è un appiglio, qualcuno a cui aggrapparci “spasmodicamente” per non cadere. Ma quel colletto inamidato non è vuoto, per noi, perché lo riempiamo di volta in volta con un “padre” cui deleghiamo il buon uso della ragione, direbbe Kant, e cui affidiamo così il compito di riempire il nostro di vuoto. Un vuoto di conoscenza, di sapere, soprattutto di risposte. E se l’intellettuale ci viene presentato come possessore di verità, di un sapere che a noi manca, di quel sapere vogliamo appropriarci seguendo il criterio di un vuoto che si riempie tramite un pieno. È l’errore commesso nel Simposio da Agatone nei confronti di Socrate. Socrate però si pone come vuoto di sapere, come non-sapere, come mancanza. Ed è proprio la mancanza che dà origine al desiderio e allo stesso tempo lo alimenta di continuo. Percependoci come pieni non avremo mai alcun desiderio, nessun rapporto erotico con il sapere e quindi nessuna possibilità di conoscere. Per Socrate il vuoto fa, al contrario, parte del sapere per il semplice fatto che il sapere non può sapere tutto, non può spiegare ogni cosa. Nel nostro rapporto con la cultura siamo invece diventati spettatori passivi, abituati a riempirci di risposte per ogni domanda e di opinioni su ogni aspetto della vita; opinioni che non si concedono ad un tempo necessario. Così l’erotismo del sapere si è trasformato in pornografia, con tutte le differenze significative tra i due ambiti. L’intellettuale, per dirsi tale, deve preservare quel vuoto che ci appartiene – quell’incavo lo chiamerebbe Lacan – quella mancanza attiva che è ciò che alimenta il desiderio di conoscere e capire. Dovrebbe, come Socrate, sottrarsi a quel transfert del proprio pubblico spingendo ognuno a cercare il proprio sapere. E questo lo si fa formulando nuove domande più che fornendo risposte a tutto; e non offrendo la propria visione di un mondo concluso, ma piuttosto gli strumenti attraverso cui interpretare e rileggere quel mondo nella sua complessità.
Ti chiedi dove siano finiti gli intellettuali, e la tua è una domanda più che legittima, dal momento che, essendo finiti in un unico calderone insieme ad opinionisti, influencer e persone dello spettacolo, è diventato sempre più difficile riconoscerli. E proprio in questa spettacolarizzazione delle opinioni succede che il valore delle idee viene misurato in visibilità. Allora, cercando di riempire vuoti, di senso quanto esistenziali, scambiamo l’opinione per verità, dimenticandoci l’insegnamento di Parmenide: se la Doxa (opinione) è sempre mutevole, l’Aletheia (verità) è ciò cui viene tolto il velo dell’apparenza ma che continua a nascondersi al nostro sguardo, richiedendo di continuo lo svelamento.
Riconoscere gli intellettuali è impresa ardua ma non impossibile: sono quelli la cui esistenza è guidata dalla ricerca senza fine di un sapere mai pieno che abbia ancora e sempre uno spazio per il desiderio.
Al di là delle polemiche – che sono sempre sterili perché portano a schierarsi senza produrre riflessioni più ampie e quindi capaci di una lettura che comprenda la famosa complessità degli eventi – quello che si tende a dimenticare quando si cede al fascino delle “influenze” che dovrebbero diventare motore di sensibilizzazione e interesse verso ambiti culturali che riguardano la nostra storia e il nostro vivere sociale, è che le influenze sono sempre processi in cui ci ritroviamo passivi. La moda, a differenza di quello che dovrebbe essere la cultura, è sempre passeggera, destinata a mutare (persino nei suoi ritorni), anche per chi se ne fa promotore. È qui, credo, l’errore di chi pensa, seppur in buona fede e mosso dalle migliori intenzioni, che la visibilità, il successo, l’avere follower, rappresentino la soluzione al problema culturale di una fascia sociale o dell’intero paese. Il rapporto tra un opinionista e i suoi spettatori o tra un influencer e i suoi follower è quanto di più lontano possa esistere rispetto a quello che si costruisce attraverso un dialogo autentico, il solo in grado di inaugurare quella reciprocità che manca ad un pubblico passivo. Si tratta di una relazione che non ha nulla a che fare con i processi imitativi e molto con l’esercizio del senso critico che ci fa stare a nostro agio anche con domande scomode, con cui ci mettiamo alla prova invece di cercare consenso, approvazione, ammirazione.
Dare vita ad un dialogo con la società dovrebbe quindi essere il principale compito degli intellettuali, che non vanno però confusi con gli specialisti, con gli uomini e le donne di solo pensiero che non hanno anche una funzione politica, come ha sottolineato Gramsci: ognuno, a suo modo, fuori dalla sua professione specifica, partecipa ad una concezione del mondo, e quindi contribuisce a sostenerla o modificarla attraverso nuovi modi di pensare; e se è impossibile separare l’homo faber dall’homo sapiens, l’intellettuale deve sapersi mescolare alla vita pratica, perché solo così può svolgere una funzione sociale e politica finalizzata alla omogeneità e alla consapevolezza; solo così ha modo di schierarsi, dove schierarsi non è tifare ma far seguire al pensiero l’azione, assumendosi la responsabilità di ciò che si crede e in cui si crede.
Era il 1949 e queste parole Gramsci le scriveva nei Quaderni dal carcere. Chissà se oggi c’è ancora spazio, nell’affollato voyeurismo politico, per gli intellettuali, quelli veri, che sappiano farci tornare il desiderio di cercare, senza mai smettere, il migliore dei mondi possibili.

La tua mail si chiude con una domanda su scienza e filosofia. La scienza non ci dà certezze ma esattezze. Noi sappiamo che 2+2 fa 4 e non 5, ma scambiamo questa esattezza per certezza. In una delle parti più belle del libro di Orwell 1984 il protagonista Winston perde la sua autonomia di pensiero fino ad arrivare a credere prima che 2+2 possa fare 5 e alla fine che il fatto che faccia 4 o 5 sia indifferente. Ma se contro l’indifferenza e la perdita del senso critico non c’è esattezza che valga, cosa resta? 

Maria Luisa Petruccelli

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