Società
Le immagini della sofferenza dei profughi, tra il virale e il contagioso
Ruotando attorno a quei corpi vuoti, gonfi, straziati di uomini e bambini sconfitti dall’orrore potremmo coniare “Sbatti il dolore in prima pagina“, traslitterazione del titolo di una famosa e citata pellicola anni ’70 che nei suoi temi si allontana di un nulla dal concetto: non un viaggio nel dolore ma un’adorazione timorosa di esso, un trionfo dell’angoscia emotiva che innalza esponenzialmente l’indignazione, l’immobilismo tremante, il tormento che giace in ciascuno di noi.
La celebrazione macabra è qualcosa che ha radici antiche e modalità di approccio differenti, a partire dal Trecento e da quel Trionfo della Morte che ci ha consegnato lo scheletro animato nella sua classica rappresentazione iconografica. Per molti le immagini dei corpi dei migranti straziati rappresentano un obbligato passaggio nella comprensione della dipartita definitiva, una sorta di spartano memento mori 2.0, o più probabilmente un atto di accusa personale nell’assurdo tentativo di includere tutto in una tragedia di responsabilità personale.
Morte, dicono. In quelle immagini però non sembra esserci alcun concetto di morte, c’è solo un altissimo tasso di strazio atto ad alimentare altro strazio, una vanità del dolore alla ricerca di specchi e riflessi, con l’obiettivo di nutrire sensi di colpa e terrore. Quelle immagini, tutte rappresentazioni umane del dramma, assumono viralità non solo in senso puramente informatico ma sembrano contagiare coscienze in maniera epidemica, con tutti i significati annessi alla necessità di una profilassi secondaria.
Abbiamo attraversato le polemiche nate su quella riva dove giaceva e continua a giacere il corpo del bimbo siriano, abbiamo assistito alla follia metamediatica della reporter magiara impegnata a scalciare profughi, l’abbiamo lapidata e derisa, ci siamo incastrati nella storia di quel profugo sgambettato e del suo -immancabile- bambino, ritrovandoli in Spagna con noi tutti rallegrati dai loro sorrisi e pronti ad ascoltare i nuovi risvolti di questo episodio costola, una sorta di spin-off della grande epopea.
Ora tocca a un altro papà e a un altro bambino, in Serbia, al confine con l’Ungheria. Questa volta la foto è più dura, questa volta la morte non viene contemplata neanche apparentemente, le dinamiche sono furenti, non è prevista la raffigurazione del riposo, neanche fosse l’ultimo. Il sangue è il protagonista, accompagnato dalle lacrime, la sofferenza sgorga con impeto e viene a bussare a casa nostra. Non viene per spiegarti nulla, si sintonizza sul canale della nostra emotività, ove non c’è spazio per capire nulla ma si possono solo sovrapporre immagini emotive su quelle del proprio universo. In quel momento quel padre diventi tu, quel bimbo diventa tuo figlio, quella donna diventa tua madre, quel ragazzo diventa tuo fratello, e via dicendo. Questo è un passaggio delicato, in cui la coscienza non necessariamente viene smossa e sicuramente viene scossa, dove non è assicurata una reazione attiva ma è garantita una remissività atta ad attingere dolore da quel dolore cristallizzato e al contempo nutrirlo con il proprio.
Potrebbe dunque esserci più di un dubbio sull’effettiva efficacia a fin di bene della diffusione virale. Potrebbe anche darsi che quelle immagini possano farci tanta paura e che il processo di condivisione scatti non in base alla voglia di un mondo nuovo, ma alla fobia tremante che ci consegna il mondo attuale, quel terrore glaciale che immobilizza proprio perché entra in casa e ci solleva il tappeto. D’altronde in molti hanno ricordato la celeberrima foto della bambina nuda e piangente che fugge durante il conflitto del Vietnam, ci hanno ricordato quanto abbia fatto scalpore e quanto abbia contribuito a portarci la guerra e il dolore in salotto; in pochi però ci hanno fatto render conto che il mondo da allora non è poi migliorato granché, in pochi si sono fermati a riconoscere l’inconsistenza didattica sotto le luci di scena.
Si potrebbero fare, anzi si sono già fatte analisi psicologiche e sociologiche che ruotano sul ruolo dell’immagine e su quel tema ormai sviscerato della società dello spettacolo debordiana, se non fosse che si finirebbe inquadrati sotto l’ala del marxismo, se non fosse che si perderebbe occasione di parlare del dolore quotidiano, di quello rosso come il sangue sotto i manganelli, di quello freddo come la morte in riva al mare, di quello subdolo del nostro quotidiano che proviamo e che tacciamo, che diffondiamo ogni giorno a volte con consapevolezza e a volte no, quel dolore che neghiamo e che poi scopriamo allo specchio, salvo immediatamente arretrare e atterrirci a tal punto da voler trascinare tutti gli altri con noi a sguazzare sotto le cascate della grande sofferenza, convinti di essere più umani e incuranti della crescente pandemia, avviluppati come siamo nel nostro reale isolamento.
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