Medio Oriente

Le auto palestinesi potranno entrare di nuovo in Israele, e con loro la speranza

15 Aprile 2015

Forse in Israele qualcosa sta cambiando. Forse in Israele il processo -lento, faticoso, inesorabile- di integrazione sta accelerando in maniera non esplosiva magari, ma qualcosa dà la parvenza di qualche cambiamento.

Poche ore fa è stato infatti permesso ad automobili con targa palestinese di entrare a Gerusalemme. Lo so, questo ai nostri occhi potrebbe rappresentare quasi una non-notizia, data la naturalezza del gesto. Da quelle parti invece non accadeva da 15 anni: era il 2000, esattamente. Anno dello scoppio della Seconda Intifada.

La breccia nel muro che appariva inscalfibile fino a qualche settimana fa, è stata aperta per poter permettere ai medici della Cisgiordania di recarsi autonomamente a lavoro, in ospedali israeliani. Già soltanto questo passaggio in effetti lascia immaginare scenari ancora piuttosto lontani, scenari in cui la parola “integrazione” possa prendere forma e senso. Integrazione è una parola di cui spesso ci si riempie la bocca credendo di star a pronunciare meccanismi scientifico-sociali di mostruosa complessità, quando a livello più puro non rappresenta altro all’infuori del concetto di «integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni». Così ci dice la Treccani, il Nuovo Hoepli, così ci suggeriscono i sentieri dell’etimologia. Ricapitolando, completare ciò che è incompleto con mezzi opportuni. In sintesi, permettere a un medico palestinese di poter esercitare il proprio mestiere senza ostacoli, e di mettere in campo, oltre alle proprie competenze, la propria disponibilità da poter sfruttare esattamente come i colleghi israeliani. In sintesi, permettere a un sistema sanitario israeliano di operare al meglio lasciando che esso attinga dalle migliori risorse umane, senza costringenti limitazioni geopolitiche. Guardare nella stessa direzione, appunto.

Il programma è iniziato martedì 14 aprile, e permetterà appunto agli ospedali israeliani di gestire con più agilità i contatti soprattutto per quanto riguarda i medici da utilizzare in situazioni di emergenza e di pronto intervento. Da Hebron e da Betlemme saranno circa un centinaio i medici palestinesi a cui sarà consentito muoversi in libertà. L’idea è quella di essere all’inizio di un percorso che potrebbe coinvolgere gradualmente altri settori lavorativi. Lo ha detto Yoav Mordechai, il responsabile del governo israeliano nei Territori Occupati: «l’ordine sarà ampliato anche per tuttie quelle mansioni che richiedono turni di lavoro o per cui ci sarà un’alta richiesta», specificando che sarà oltremodo allentata la rigidissima legislazione che fin ora prevedeva il valico della frontiera soltanto agli uomini palestinesi sopra i 24 anni, sposati e con prole. D’ora in poi sarà permesso l’accesso anche agli uomini sopra i 22 anni, a patto che siano sposati, mentre i figli non rappresenteranno più un obbligo.

Reazioni positive hanno accolto la disposizione, come quella di David Menachem, capo dell’Amministrazione civile in Giudea e in Samaria: «Questo è un passo significativo destinato ad aiutare i medici a completare la loro missione di salva-vita», specificando però che «Il successo di questa fase sarà valutato in base alla situazione della sicurezza». Insomma, piedi di piombo, certo è che se proprio dev’essere piombo, direi che preferiamo l’accezione metaforica dei piedi.

D’altronde la situazione è decisamente troppo delicata per potersi concedere facili entusiasmi, si sa bene quanto il tempo in questa particolare zona del globo possa assumere sembianze strane. Cinquant’anni possono durarne duecento, percorsi di quindici anni possono essere cancellati in pochi mesi, addirittura in pochi giorni.

Nonostante ciò, pare proprio che, come ha dichiarato Morchedai, «il prossimo passo sarà permettere l’accesso alle automobili degli impiegati, dei liberi professionisti, degli uomini d’affari» , accertando la posizione del governo secondo cui verranno presto rilasciati almeno 30.000 permessi agli abitanti palestinesi della Cisgiordania. Così dicono le fonti giordane di Ma’an.

L’integrazione, questo processo d’assemblamento, ritorna timidamente anche dove sembrava bandita, anzi non contemplata. Così migliora Israele, così migliora la Cisgiordania, così palestinesi e israeliani possono provare a guardare nella stessa direzione. Così, semplicemente. Certo poi ci sono i trattati, i negoziati, il riconoscimento della Palestina, le future politiche di Likud e dei suoi alleati, la questione iraniana. C’è da pensare ai due milioni scarsi di persone che abitano in Cisgiordania, e al fatto che non possono muoversi liberamente neanche in tutta la Cisgiordania.E poi i giacimenti di gas al largo della costa di Gaza, le assurde pretese di Hamas che pare interessarsi del suo popolo a corrente alternata, secondo la convenienza, come abbiamo visto in occasione del massacro al famigerato campo Yarmouk, in Siria, ulteriore occasione per dimostrare quanto poco i palestinesi c’entrino con le politiche del “Movimento Islamico di Resistenza”.

Queste le cosiddette questioni su scala globale, quelle che sul quotidiano si riversano in un modo impercettibile, e che ti cambiano senza fartene rendere conto, ma che possono farti sperare in un futuro possibile così, da un piccolo segnale, da un simbolo muto che può spiegare tutto ciò che le nostre orecchie non colgono nei grandi discorsi in occasione delle trattative di pace, degli annunci elettorali, dei discorsi al Congresso. Spesso è molto più efficace leggere la speranza di un futuro su una targa palestinese di un’auto che entra a Gerusalemme, a patto che questa sia la strada da non chiudere più.

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