Società

L’autunno del Veneto e la primavera dell’Emilia: due facce nel Nord-est nel 2050

30 Gennaio 2024

Se non interverranno fattori esterni il Veneto nei prossimi trent’anni sarà ancora meno attrattivo di oggi. Lo prevedono le proiezioni demografiche dell’Istat, rilasciate nelle scorse settimane. I dati sono basati sulle tendenze rilevate negli ultimi anni e segnalano un accentuato calo demografico dovuto a riduzione progressiva del saldo naturale (differenza tra nati e morti), combinato con il saldo migratorio interno (da e per l’Italia) ed estero. Se si guarda al 2050, la popolazione complessiva del Veneto diminuirà di 160 mila unità, ma sarà soprattutto la popolazione attiva, quella in età lavorativa, a subire un tracollo: meno nati, l’arrivo di un numero inferiore di immigrati e maggiori emigrazioni priveranno la regione di oltre 542 mila lavoratori e lavoratrici. L’età media passerà dai 46,6 anni attuali ai 50,5 con l’indice di vecchiaia che farà un balzo di oltre cento punti dal 195 al 296 per cento.

L’emorragia cominciata a cavallo della crisi economica del 2009-2011 non accenna dunque a fermarsi e un rapido confronto con l’Emilia Romagna, territorio che oggi conta circa mezzo milione di abitanti in meno del Veneto, non fa che aumentare gli interrogativi sui motivi per cui due zone contermini molto simili dal punto di vista economico dovrebbero sperimentare fenomeni contrastanti, una di crescita e l’altra di declino. Come ha rilevato Gaia Fusilli su VeneziePost, la popolazione emiliana nel medesimo periodo preso in considerazione crescerà di 104.768 unità, grazie soprattutto al contributo dell’immigrazione straniera, mentre il Veneto perderebbe 159.774 persone.

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Analizzando i dati nel dettaglio si comprendono meglio le possibili dinamiche. I saldi naturali, cioè la differenza tra nati e morti, sono molto simili nelle due regioni con una differenza di 25 mila unità a favore dell’Emilia. La vera differenza la fanno i flussi in ingresso e in uscita, cioè le migrazioni da e per le altre regioni italiane e da e per l’estero. Secondo le previsioni dell’Istituto di Statistica l’Emilia Romagna riuscirebbe ad attirare dall’Italia oltre un milione di persone nel periodo 2023-2050 al ritmo di 35-36 mila persone l’anno e oltre 788 mila dall’estero. Numeri decisamente più contenuti invece per il Veneto che potrebbe contare su 722 mila immigrati italiani e 776 mila immigrati dall’estero, cioè in totale 344 mila persone in meno. Per quanto riguarda i flussi in uscita il Veneto recupererebbe circa 100 mila unità rispetto all’Emilia Romagna. Da quest’ultima partirebbero 741 mila persone verso l’Italia e 325 mila verso l’estero, contro i 961 mila con le valigie dal Veneto (560 mila diretti nelle altre regioni italiane e 401 mila per l’estero).

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Il saldo migratorio totale dell’Emilia Romagna si attesta a 776 mila persone in più al 1 gennaio del 2050, mentre quello Veneto si ferma a 536 mila. In quella data il numero di abitanti delle due regioni si sarà molto avvicinato. In Emilia Romagna si conteranno 4.539.070 abitanti, in Veneto 4.696.361, ma l’indice di vecchiaia emiliano sarà nove punti inferiore di quello veneto e la popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni sarà due punti percentuali sopra.

Dopo tanti numeri, vale la pena ribadire che si tratta di proiezioni realizzate dall’Istat sulla base degli andamenti demografici rilevati nell’ultimo decennio, quindi non si tratta di previsioni. Nei prossimi venticinque anni possono intervenire innumerevoli fattori che rafforzeranno, correggeranno oppure invertiranno le curve disegnate dall’Istituto di Statistica.

Certo è che il declino demografico veneto e le sue origini sono argomenti ricorrenti, ma la discussione rimane confinata in ambito accademico e, talvolta, nei convegni di carattere economico periodicamente tenuti dalle organizzazioni datoriali. Al massimo, all’inizio di ogni anno, riempie qualche pagina di giornale, ma il dibattito non riesce a lambire i palazzi dove si prendono le decisioni.

Già nel 2017 il rapporto Istat Bes segnalava chiaramente la perdita di capitale umano qualificato del Veneto, pari in dieci anni a circa 10.000 persone con alta formazione e competenze di alto livello, mentre nel medesimo periodo, l’Emilia Romagna di quei profili ne aveva acquisiti circa 24 mila. Ancora, nel 2019, l’Emilia era ventuno punti sopra al Veneto nell’indice delle richieste di brevetti europei (107,74 contro 86,52, l’approfondimento all’epoca fu curato dal professor Marco Bettiol) e, sempre nel 2019, la popolazione veneta con una laurea o un titolo di studio superiore alla laurea era inferiore di un terzo rispetto alla media europea e comunque sotto l’Emilia Romagna. Senza contare, alcune debolezze strutturali del ‘sistema Veneto’ tra cui, elenco a memoria e senza un ordine preciso, mancanza di un forte polo di aggregazione, cioè di una città medio grande (tema affrontato da Stefano Micelli con un dettagliato studio per l’Ocse ormai 15 anni fa e presto accantonato dalla politica), frammentazione accademica con molte università tra loro rivali e in competizione, perdita di centri decisionali pubblici, ad esempio le multiutility, come ha ricordato il professore di demografia all’Università di Padova Gianpiero Dalla Zuanna sempre su VeneziePost, ma anche privati, con le funzioni ad alto valore aggiunto che si sono progressivamente spostate verso Bologna e Milano lasciando in Veneto le produzioni, come sottolineato a più riprese da Giulio Buciuni, professore associato di economia al Trinity College di Dublino, anche su queste pagine, sistema di trasporto pubblico lento e del tutto inadeguato a connettere la città policentrica del Veneto: il risultato è che le zone periferiche rispetto all’asse centrale della pianura, perdono qualsiasi opportunità di crescita. E infatti le proiezioni per Belluno e soprattutto Rovigo nel Veneto 2050 è di un calo della popolazione variabile rispettivamente dell’11 e del 6,6 per cento.

In copertina foto di Eugene Zhyvchik

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