Società
L’amore è un groviglio, ma anche la lotta – oggi – è un groviglio
L’amore è un groviglio, ma anche la lotta – oggi – è un groviglio (o di alcuni libri che sto rileggendo, nel momento attuale). Questo potrebbe essere il titolo esteso dell’articolo. Che infatti potrebbe iniziare con una citazione:
“Tutto questo parlare di futuro non ha alcun senso per me. Voglio dire, io sono qui dentro. È questo che devo affrontare adesso”.
Così fa dire George Pelecanos a un personaggio del suo romanzo La strada di casa. Questa è la condizione in cui, oggi, noi tutti viviamo. Sospesi in un presente continuo e apparentemente senza fine, tentati dal cedimento ma al contempo irrequieti, piacevolmente sorpresi da tutte le mani che si allungano verso ognuno di noi, e dalle nostre che si allungano verso gli altri e le altre.
Come la mano di un’amica che, alla fine di un giorno difficile, mi manda un abbraccio virtuale, ma anziché dirmi una cosa qualunque, giusto per tirarmi su il morale, mi chiede di scrivere una cosa, e così quella mano fa breccia, e io riesco a attraversare una notte che a guardarla arrivare mi sembrava dovesse durare quanto un’intera stagione.
Perciò, consapevoli di essere irriducibili alla vita, ci tocca pensare ancora al futuro, e dentro a questa situazione balorda è forse il momento di porgerci il quesito peggiore che ci potesse toccare: quando domani staremo (o, più probabilmente, qualcuno che ora non sappiamo prevedere starà) praticando conflitto, e ci diranno di tornarcene a casa, noi, che cosa faremo?
C’è una persona che mi ha insegnato che ogni sentimento è un groviglio. Forse, per qualcuno, questo rappresenta una banalità, ma per il sottoscritto è il risultato di un percorso non scontato, durato probabilmente quasi tutta una vita. Una strada tortuosa alla fine della quale una donna, una femminista, una ragazza testarda è riuscita a farmi finalmente capire che non esistono sentimenti lineari, strade diritte da percorrere in scioltezza, ma stati d’animo che, per ottenere di essere “veri”, costano un po’ più di qualche notte d’amore, implicano una lunga e faticosa – a tratti sfiancante – alternanza fra il desiderio della complicità e quello della rivolta. E non è mai un confronto fra pari. Questa piccola pippa introspettiva iniziale serve perché, in questo momento, ogni persona, ogni uomo e ogni donna, ma forse – soprattutto – ogni compagno e ogni compagna, o come li volete chiamare, portano dentro di sé una sorta di lacerazione, una contraddizione stridente, appunto, fra l’affidarsi alla scienza, farsi carico del distanziamento sociale da una parte e il combattere con i propri dubbi e timori dall’altra. Il timore di una obbedienza di cui si annusa il potenziale della trappola, del ricatto, come se proprio questo stesso senso di responsabilità potesse fare scoprire, da un momento all’altro, di essere finiti dentro ad un sacco in cui non si sarebbe voluti finire. Di aver tradito il desiderio di rivolta. Di essere rimasti fedeli soltanto al desiderio di complicità. Ma su questo tornerò fra un momento.
Prima, vale dunque sottolineare che l’obbedienza non è gratis, per nessuno di noi, per nessuno degli altri. Ha un costo intimo, prima ancora che sociale. Ha il costo di una dimensione dalla quale eravamo stati sradicati, e quello sradicamento non aveva rappresentato a sua volta un avvenimento neutro e neutrale, tutt’altro. Non era gratis quella routine della sottomissione dentro a un ingranaggio sociale, e non è gratis oggi questa sottomissione che, per molti di noi, è invece quella dell’atomizzazione sociale portata all’estremo, forse la punta ideale di ogni meccanismo che tende ad estrarre valore. È come se fossimo tutti piombati dentro a un momento storico in cui, di colpo, da animali atti a produrre (qualunque genere di cosa), ci ritroviamo restituiti a una vita piena (anche) di tutte le altre funzioni, ma come intrappolati dal gelo: delle nostre prigioni, dove ogni nostra croce è però, al contempo, ogni nostra risorsa, e viceversa, come nella metafora dell’annegamento lasciata da Philipp Meyer in Ruggine Americana:
“Una lezione di vita. Saresti riaffiorato solo adesso, ad aprile; il fiume si riscalda e le cose che vivono dentro di te in silenzio, senza che lo sai, sono quelle a farti tornare a galla. Te l’ha insegnato il professore. D’inverno i cervi morti sembrano scheletri però d’estate la pelle si gonfia, per i batteri. Il freddo li tiene a bada ma alla fine ti assalgono”.
È come se tutti fossimo stati sradicati dall’unico nostro ruolo sociale riconosciuto davvero nel capitalismo maturo, vale a dire essere quel che facciamo, e dovessimo riprenderci di colpo tutti gli altri quel che facciamo che avevamo delegato a qualcun altro: amare noi stessi, educare i nostri figli, riempire il tempo in autonomia, e sì, anche stabilire il nostro proprio confine fra obbedienza e rivolta. E noi, che nel nostro bagaglio tutte quelle funzioni le abbiamo, o in potenza almeno le avremmo, non siamo più capaci di farne alcunché. Così ci sentiamo suonati, sfiancati dalla nostra incapacità e dalla nostra indecisione, come Andre Dubus III in I pugni nella testa:
“Mi misi di fronte al lavabo e allo specchio. Ero quasi sorpreso di vedere una persona lì in piedi. Questo ragazzino con il viso liscio e nessun pelo, questo ragazzino dai lunghi capelli castani tirati indietro in una coda di cavallo, questo ragazzino dalle spalle strette e dalle braccia e dai pettorali mosci, senza palle. Questo ragazzino non aveva le palle. Guardai nei suoi occhi: Non mi importa se ti fai sfondare la faccia. Non mi importa se ti prendono a calci in testa, o se ti pugnalano o addirittura ti sparano, non ti permetterò mai più di non rispondere alle botte. Mi senti?”.
Questa citazione – forse un po’ machista, forse troppo ridicolmente virile – serve proprio a parlare del senso di colpa che, contraddittoriamente, ma dunque pienamente e liberamente, ognuno di noi vive nell’intimo, a causa dei propri fantasmi: quelli dell’inadeguatezza, della colpa di esser sbagliati. Così ci sentiamo, presumibilmente. Così ci sentiamo in questa nuova dimensione che ci mette di fronte alla nostra incompiutezza come uomini e donne, al nostro non bastare da soli, ma esattamente il contrario, al nostro essere profondamente animali sociali, in quanto desiderosi di legami e di unioni, e al contempo animali sociali in quanto inseriti in una divisione del lavoro di cui non potremmo fare a meno neppure volendo, e fuori dalla quale nemmeno saremmo in grado di sopravvivere. E, in questa presa di consapevolezza della nostra pochezza, della nostra incompiutezza, del nostro essere profondamente inadatti, ora che siamo “soli” finalmente ci affidiamo al parere degli altri, e dunque obbediamo, cerchiamo di capire, ci affidiamo.
Ma dove ci porterà questa palestra dell’obbedienza che, benintesi, nessuno di noi sta evidentemente mettendo in discussione o tradendo? È davvero soltanto una fase eccezionale, come altre epidemie nel corso della storia, o come molti ci dicono altre ancora ne verranno – sempre più spesso – nei prossimi anni, a cominciare dalle nuove ondate di questa, e peraltro in un contesto di crisi feroce, come forse non ne abbiamo mai conosciute? Saremo sempre tutti bravi cittadini o oscilleremo talvolta sul lato della rivolta?
“Tacciono ambedue, abbagliati da questa prospettiva. Che cosa erano un momento prima? Esistenze sconosciute, confuse con le altre in quel grande, oscuro brulichio. E ora sono ambedue completamente soli, appartati, innalzati sugli altri, non li si può confondere con nessun altro”.
Saremo ancora i vecchi coniugi dall’esistenza obbediente protagonisti di Ognuno muore solo di Hans Fallada o saremo gli stessi coniugi ormai decisi a combattere – come possibile – il nazismo? Dimenticheremo come loro la paura, per noi stessi e per gli altri, per privilegiare la rivolta, o la paura ci piegherà a più miti consigli, facendo di noi una specie animale incapace di praticare il conflitto? Se in autunno scenderemo in piazza, se fra dieci mesi da qualche parte nel mondo partirà un potente movimento che scuoterà un sistema già stremato, se ovunque nel mondo una nuova generazione chiederà – e lo chiederà senza domandare permesso – un cambio di marcia, e all’improvviso chi comanda ci pregherà di chiuderci in casa per contrastare un’altra ondata del virus, noi che cosa faremo? Cosa faranno quei ragazzi, quei lavoratori, quei disoccupati che staranno praticando l’opposizione sociale? Vincerà il desiderio di godere veramente del mondo, o la paura di non poterne godere del tutto?
“Parlava di una nuova qualità della vita e insisteva sul fatto che può essere, e deve essere scoperta da ognuno di noi. Nel momento stesso in cui si svegliava, provava una gioia profonda che non sapeva come descrivere; senza dubbio, la gioia di sentirsi vivo, in buona salute, ma anche qualcos’altro: la gioia di sapere che esistono altre persone, che vi sono le stagioni e che nessun giorno assomiglia a un altro, la gioia di poter contemplare gli animali e i fiori, di poter accarezzare gli alberi. Per strada, anche senza guardarsi attorno, sentiva di fare parte di un’immensa comunità, di costituire una parte del mondo. Anche le cose brutte, come ad esempio una landa abbandonata disseminata d’immondizia e di ferraglia, sembravano misteriosamente illuminate da un irraggiamento interiore”. [Mircea Eliade, Un’altra giovinezza].
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