Diritti
La strage dei migranti e l’ecatombe dell’empatia sociale
Settecento morti, un’ecatombe. Questo il risveglio in una domenica italiana, un risveglio dato dagli strilli all’angolo della strada: “un’imbarcazione si è rovesciata nel Canale di Sicilia, si presumono 700 morti”, pressappoco così la linea del lancio d’agenzia. Settecento vite umane che sfuggono in una volta sola, a cui si aggiungono altre centinaia di non-esistenze inghiottite dal mare e dal destino nel giro di pochi mesi, nel giro di qualche anno. Un sacrificio doloroso, collettivo. Un’ecatombe gridato a effetto eco che rimarca l’accezione della mattanza animale antica, della condizione subumana in cui la vita di queste persone è svanita.
Le analisi e i resoconti in queste ore intasano lo streaming, rimbalzano e si sprecano in ogni dove. Bilanci e pallottolieri che trasformano in numero l’orrore, invettive che raccolgono tutta la violenza dispersa tra le onde e la rilasciano di nuovo per avvelenare tutto il resto, la terra e l’aria, l’etere e la banda larga.
La macchina opinionista si avventa sulla desolazione della tragedia e consuma il suo pasto senza empatia e senza alcuna compassione, neanche la più lontana, e nessuno si sente escluso, dalla famosa casalinga di Voghera al solito inopportuno personaggio pubblico, sempre più perso nella propria inopportunità, in costante corsa verso la vergogna più spettacolare. Disse qualcuno -probabilmente con ragione- che la violenza si usa per combattere chi odia ma non per combattere l’odio, disse qualcun altro che esistono varie forme e vari gradi di violenza.
In sociologia è definita violenza “ogni forma di aggressione, di coercizione, di dominio, e anche, più astrattamente, di influenza, condizionamento e controllo delle attività pratiche e più ancora di quelle intellettuali dell’uomo, esercitata non tanto da singoli quanto dalle istituzioni che detengono il potere” , che spesso in questi casi diventa qualcosa di impersonale e quasi mitologico: l’innalzarsi della violenza, le disposizioni contro la violenza, la sensibilizzazione alla violenza, etc. etc.
Violenza è di certo aggressione, coercizione, dominio, e soprattutto influenza. Di fronte a centinaia, migliaia di profughi che vengono inghiottiti nel Mediterraneo, la violenza si palesa soltanto con le vittime, e mai col carnefice. Violenza atroce, violenza irresponsabile, violenza senza nome, violenza come materia grezza, violenza che spezza vite umane a largo poco prima di imborghesirsi in ipocrisia redditizia o in spietatezza gratuita -ma sempre redditizia-, a seconda delle occasioni.
Come dimenticare d’altronde -e certo che non lo si fa- la violenza grezza che giaceva abbandonata nei corridoi e nelle stanze della scuola Diaz per quattordici anni, prima di essere riconosciuta come violenza senza umanità. Immediatamente è seguito lo stesso iter: fazioni, cori contro e cori a favore, strumentalizzazione della violenza stessa per farne motivo d’orgoglio, d’appartenenza e di possesso. E così mentre la maggior parte del paese si vergognava -di nuovo- per esserne stato responsabile e teatro, altri si affrettavano invece a mettere i puntini sulle i: “quella violenza è mia per sempre” sembra dire Fabio Tortosa con le sue “mille volte”, nella fretta di appropriarsi dell’orrore, a prescindere dalle barricate.
Ieri la vicenda Diaz, oggi un altro immenso dramma. Oggi come ieri e come l’altro ieri, una nuova forma di violenza allestisce la tragedia quotidiana. Oggi come ieri è tanta la vergogna e il senso pesante di responsabilità da parte di chi prova controcorrente ad ascoltare la propria coscienza, e oggi come ieri c’è chi spinto da torbide motivazioni ha fretta di far risplendere il proprio lato oscuro: “Questa violenza non ha senso, la mia violenza sarebbe più funzionale” sembra dichiarare l’onorevole anzi onorevolissima Daniela Santanchè.
La parlamentare di fronte alla strage si affretta a pubblicare un tweet in cui consiglia, per il futuro s’intende, di prendere la testa al toro e “sparare ai gommoni”. La Santanchè è probabilmente vogliosa di rivendicare la nobiltà del piombo di fronte alla volgarità del naufragio: il concetto è quello di sparare invece di lasciarli annegare, o meglio di sparare per evitare che anneghino.
In questa gara dell’acume cinico c’è tutto il corollario, e non manca nessuno all’appello. “Questa violenza mi serve come l’aria” sembra dichiarare Matteo Salvini nel suo commento giornaliero su facebook in cui annuncia il suo arrivo in Sicilia, seguendo il sentiero elettorale che pare ingrossarsi parallelamente al numero di vite spezzate. “Questa violenza è anche nostra” sembra gridare anche il demonio da tastiera travestito da signora sorridente per cui tutto -letterale- “è troppo bello per essere vero”. E aspettate perché c’è l’agente assicurativo che sente di dare il buon appetito “ai pesci che si cibano di chi toglierebbe il cibo a noi italiani”, per non parlare delle varie dichiarazioni singhiozzanti in tutta Europa di chi ha avuto e ha responsabilità sulle normative che hanno condotto alla strage.
Insomma nell’era dell’abbattimento spazio-temporale i laboratori di raffineria della violenza trovano nuovi e utili sbocchi, sfruttando canali più veloci e più capillari. Poi per carità, c’è chi viene sospeso per un post, come Tortosa, chi per un like come il vicequestore Adornato di Cagliari che apprezza Tortosa, e chi, inscalfibile, continuerà a frequentare salotti tv, Parlamento e palcoscenici vari come Santanchè o chicchessia, libero di rappresentare le istituzioni e libero al contempo di twittare a suo piacimento che altre persone devono o meritano di morire.
Ci domandiamo lecitamente se alla Santanchè sarà riservato lo stesso trattamento di Tortosa, o se magari all’agente assicurativo sarà impedito di fare l’agente assicurativo, o se la casalinga di Voghera non potrà più fare la casalinga a Voghera ed emigrare altrove. Ci domandiamo lecitamente quante altre libere opinioni, note e popolane, dovranno passare sotto i nostri occhi prima di capire quanta poca speranza c’è di riaddrizzare davvero le cose senza la responsabilità, dell’opinione. Ci domandiamo lecitamente, come individui e come agglomerato, quando saremo pronti a non nascondere la compassione come se fosse una debolezza.
Nel frattempo avanziamo a grandi passi verso la desertificazione, col web a recitare la malsana parte del serbatoio d’odio. In questo perenne dualismo alla Zaratustra viene dunque contrapposta la rete alla società, spesso non realizzando che internet è solo un contenitore in cui la società si riflette annullando spazio e tempo. Ecco dunque che l’odio e l’umiliazione, nati altrove, vengono versati per innaffiare il giardino, aspettando che spuntino qua e là i germogli del cinismo, dell’ignoranza, del disprezzo e dell’ipocrisia funzionale quanto spietata.
Potremmo dire di essere costretti a cercare continuamente commenti e riflessioni vane come questa, potremmo dire di dover incarnare quel che di buono -e tanto- è presente sul web e che continuamente e quotidianamente viene travolto dall’onda nera della disumanità. Potremmo dire di essere a un punto di non ritorno, una specie di naufragio. No, forse un’ecatombe, a voler essere ancora più spietati.
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