Bologna
La protesta ittica e i sociomacellati
Il populismo è un problema serio, serissimo. Non a caso, gli abbiamo dedicato parecchie righe. E, non a caso, abbiamo definito più volte il nostro spazio-tempo sociale come “il corso populista degli eventi”, senza ricorrere a un’iperbole.
Onfray, interessandosene, parlerebbe, probabilmente, di episteme populista in costruzione. Bourdieu, di habitus in tessitura. Borgonovo (La Verità), obbediente a un altro ordine di grandezza analitica, ribadirebbe il concetto sostenendo che “la chiesa dovrebbe prestare più attenzione ai sondaggi”, agli umori del “popolo”. Straordinario: dall’infallibilità papale al Concilio di Demopolis. Lo Spirito Santo, si sa, è un po’ lento di riflessi. Barabba docet.
Ebbene, qui sta il punto, pare che anche le piazze comincino a intercettare le dimensioni, nonché l’entropia, del fenomeno populista. Lo spontaneismo del movimento delle sardine ci dice proprio questo. E poco importa se il fermento protestatario assume il volto inusuale di un’opposizione all’opposizione. Perché, di fatto, l’egemonia culturale del linguaggio populista sembra un infausto destino collettivo a prescindere dall’attuale posizionamento di chi di quel linguaggio ne abusa h24, con un presenzialismo forsennato, con ammiccamenti riprorevoli.
La protesta ittica, in sostanza, sembra pretendere dalla politica-politicante, in primis, un bagno di serietà. Un ritorno alla cosa pubblica intesa non come propaganda perpetua. Memore della recente istituzione del Ministero della Paranoia di cui teme il ripristino.
A veder bene, una forma di dissenso quasi prepolitica, dai toni pacati, dialoganti, in levare, lontana dalle retoriche incendiarie del Vaffa-day. Aggrappata all’assunto secondo cui “la demagogia ha un alleato: l’odio per l’intelligenza”, come dimostrano plasticamente gli abbracci agli ulivi e gli sbaciucchiamenti di crocifissi. Tutto molto bello.
Eppure, discostandoci per un attimo dallo stucchevole stupor mundi dell’intero comparto mediatico, dobbiamo registrare, per quanto concerne le sardine, uno status di cantiere rivendicativo ancora troppo incerto: un’arma a doppio taglio che abbiamo imparato a conoscere con l’esplosione pentastellata, a confronto addirittura strutturatissima. E dobbiamo farlo perché quando le piazze rassicurano anziché allarmare chi di dovere, c’è il rischio che le annesse proteste, per quanto effervescenti, si sfiatino in tempi rapidissimi.
Spieghiamoci meglio. Al netto dell’inarrestabile degrado politico-culturale in cui ci siamo abituati a sguazzare, proviamo un’istintiva simpatia per chiunque organizzi fronti di resistenza. Ciononostante, temiamo che la lotta al populismo, se condotta attraverso istanze vaghe, non porti a niente.
“Costruiamo una nuova politica”, ad esempio, è il classico slogan che mette d’accordo tutti. Ma se non lo si riempie con la gigantesca macelleria sociale che vede coinvolte intere generazioni in ostaggio della disoccupazione, della precarietà e dell’utopia del pensionamento, lo si rende oltremodo inoffensivo. Perché, in fin dei conti, fare del populismo, nella sua declinazione più comune, significa proprio offrire un pratico contenitore, buono solo per la propaganda, a quei sociomacellati in attesa di collocamento. Senza dar voce e risposte a costoro, non c’è protesta ittica che tenga.
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