Letteratura

La peste del linguaggio

26 Marzo 2020

Quando descrive la peste di Atene che decima il popolo e si porta via il più grande statista del tempo (Pericle), lo storiografo Tucidide non intende limitarsi a parlare della patogenesi e della fenomenologia della malattia né vuole soltanto sottolineare come in tempi di crisi la peste non sia esclusivamente una piaga del corpo, ma anche una malattia dell’animo: se, infatti, non si riconosce più il senso umano della vita e si perde ogni traccia di anelito spirituale, allora, sì, la peste ha colpito al cuore l’esistenza. No, Tucidide nella peste vede un pericolo enorme, più grande del numero delle vittime e più acuto del dolore dei corpi, più duraturo dell’agonia dei singoli individui: nella peste Tucidide scorge il virus della fine di un’epoca, il sintomo della deriva di una polis in difficoltà, già travolta dalla guerra contro Sparta; la peste acuisce il pericolo della sconfitta e della schiavitù, alimenta la preoccupazione di cadere “in avventure politiche rovinose per la stessa sopravvivenza dello Stato”. Nella peste si annidano i germi della fine della democrazia: dalla peste nascerà la malattia del linguaggio, quello della Sofistica degenerata in Eristica, la patologia comunicativa che con le sue capziosità e ambiguità riesce a far prevalere il discorso debole su quello forte; dalla peste nascerà il regime dei Trenta Tiranni, quello che condannerà a morte Socrate, il libero pensiero; dalla peste nascerà la dittatura.

“Tutte le disgrazie degli uomini derivano dal non tenere un linguaggio chiaro”, ammonisce Camus nel suo romanzo “La peste”. E in effetti, oggi lo stiamo sperimentando: i decreti plurimi e ambigui, fumosi e intenzionalmente polisemici, emanati dal governo, le cui esternazioni notturne – poco chiarificatrici e molto ansiogene – alimentano il senso di smarrimento generale; le confusioni strumentali che si annidano nelle dichiarazioni di politici attenti solo a catturare consensi; le contraddizioni lessicali e contenutistiche fra virolgi, epidemiologi, esperti, scienziati; il vano parlare di inconcludenti narcisisti del web e della TV;  e infine le polemiche astratte tra filosofi sull’essenza del Male, come quella recente tra Agamben e Flores D’Arcais, lo dimostrano chiaramente. Con “la peste del linguaggio” – così la chiamava Italo Calvino nelle sue Lezioni americane – comincia la fine di una democrazia.
Rispetto del dolore, attenzione alla sofferenza, onestà delle parole, coerenza delle decisioni politiche: questo chiediamo ai tempi del Coronavirus.

Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.
(G. Ungaretti)

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