Società

La pandemia è una questione di classe

5 Maggio 2021

Che la pandemia abbia riaperto il dibattito sulle questioni di classe è un dato di fatto: crisi del mercato del lavoro, differenze abissali di trattamento fra dipendenti e lavoratori precari, lavoro sommerso, le nuove povertà delle vere partite iva sono soltanto alcuni esempi. Le ineguaglianze di un sistema che, in una situazione “ordinaria” riguardavano soltanto alcune categorie – i cosiddetti pionieri di un mondo di domani basato sul mantra “finché funzioni va bene, altrimenti fatti tuoi” – sono entrate prepotentemente nella vita quotidiana della maggioranza delle persone. Il dato economico di sistema non riguarda però soltanto il mondo del lavoro e, in senso lato, economico, ma anche e soprattutto quello sanitario.

Dai lavoratori costretti a svolgere i loro compiti in contesti di mancata sicurezza, a quelli che non possono permettersi le giuste tutele materiali che, lo stesso Stato, indica come fondamentali nella lotta al virus. Se infatti in alcuni contesti lavorativi, pensiamo al settore della pubblica istruzione, i dipendenti sono stati dotati di gel e mascherine che, nonostante le ancora non ottimali condizioni delle scuole dal punto di vista della ristrettezza degli spazi, rappresentano il primo presidio contro il contagio, questo non è avvenuto in molti altri settori, soprattutto nel privato. I costi “vivi” della prevenzione sono stati interamente delegati ai lavoratori e le problematicità legate ai costi dei presidi sanitari non sono state limitate ai già scandalosi rincari avvenuti nel corso della prima ondata, quando per una mascherina ffp2 si potevano arrivare a spendere fino a 20 euro al pezzo. Costi molto diversi per le mascherine chirurgiche, che però hanno il “difetto” di non proteggere chi le indossa, ma le persone vicine da chi le indossa. Concetto che, purtroppo, non appare ancora chiaro a oltre un anno e mezzo dall’avvento della pandemia.

Non indossare la mascherina in ambienti chiusi o in situazioni di vicinanza forzata, rappresenta un atto d’irresponsabilità civile, che, se consideriamo il dato economico, è anche e soprattutto classista. Chi non indossa la mascherina impone a chi lo circonda una “difesa” e questa difesa ha un costo che non tutti si possono permettere.

Poco importa quindi che il lavoratore indossi la mascherina chirurgica se il suo collega decide di non farlo. La millantata libertà di scelta di coloro che gridano alla dittatura sanitaria, significa di fondo menefreghisimo e mancanza di coscienza civica, che si riverbera anche sulle spese sanitarie dello Stato e, dato non da poco, sulla crisi del settore privato. Se consideriamo infatti che per il capriccio di una persona che decide di non indossare la mascherina in modo corretto si aggrava il carico di pazienti nei reparti, il costo dell’assistenza durante e post malattia, nonché il fermo forzato e prolungato di alcuni settori, ci accorgiamo quanto peso abbia una scelta individuale (o mancata corretta imposizione di scelta per quanto riguarda i luoghi di lavoro) sul sistema.

Un certo lassismo nei controlli, sia nei luoghi pubblici che in quelli privati – pensiamo alla differenza abissale nelle procedure di accesso ai supermercati fra fase uno e fase due, procedure che, sulla carta, non dovrebbero essere cambiate – ha provocato di fatto un mantenimento a livelli piuttosto alti dell’indice di contagio e, di conseguenza, la necessità per chi vuole proteggersi e proteggere gli altri, di un alto costo di questa operazione. Se infatti le procedure venissero osservate in modo scrupoloso, sarebbe sufficiente indossare la mascherina chirurgica in gran parte dei contesti chiusi, anche quelli ad alta frequentazione. Nasi fuori, mascherine abbassate per parlare al telefono o, peggio, per uno starnuto, non indossate perché “si respira male” o “si appannano gli occhiali”, hanno imposto un costo alto dal punto di vista sociale, ma anche e soprattutto di classe.

Chi si può permettere la spesa per la ffp2 infatti si protegge (proteggendo anche gli altri), diversamente, se non si ha disponibilità economica, ci si arrangia. Stesso amaro discorso per quanto riguarda i tamponi che, anche nella loro versione “rapida”, rappresentano il miglior sistema di contenimento di un possibile rischio contagio. I tamponi però non sono gratuiti, se non per alcune categorie o casistiche e sono pochissime le situazioni in cui un soggetto terzo si fa carico dei costi. Così può capitare che un tampone rapido arrivi a costare 50/60 euro, un molecolare 160. Cifre non affrontabili per gran parte dei lavoratori italiani. Che fare quindi se ci si sveglia con qualche linea di febbre o un po’ di tosse? Le opzioni ad oggi riflettono, ancora una volta, un forte dato di classe: se si ha la possibilità di restare a casa dal lavoro (perché si ha un contratto che prevede la malattia ad esempio), si resta a letto in attesa che passi. Se si ha questa possibilità e qualche soldo magari si fa anche un tampone di controllo prima di tornare al lavoro, altrimenti, passati i sintomi, ci si dichiara guariti. Se si ha senso civico si indossa almeno la mascherina chirurgica, diversamente starà agli altri affrontare il problema. Se invece a monte non si ha la possibilità di restare a casa in malattia, se non si hanno i soldi per un tampone molecolare, si prende un’aspirina e si va al lavoro. Sempre con l’accortezza della mascherina, nel migliore dei casi.

Ecco allora che sorge una domanda lecita: se le condizioni lavorative e reddituali della maggior parte degli italiani non consentono l’applicazione delle norme imposte dal contenimento pandemico, di chi è la colpa? E ancora non bisognerebbe attribuire una colpa ancora superiore a coloro che, pur nella disponibilità di mezzi per influire positivamente sul contenimento dei contagi, per esclusiva scelta personale non li utilizzano?

Esiste una differenza fondamentale in termini di responsabilità fra coloro che non possono permettersi il costo della pandemia e coloro che scelgono di non volerselo permettere, così come esiste una differenza fondamentale fra coloro che scelgono di non aderire alla campagna vaccinale e coloro che, pensiamo a sistemi sanitari differenti dal nostro, vorrebbero aderire e non possono permetterselo.

I costi delle scelte private che ricadono sulla collettività devono diventare urgentemente tema di dibattito pubblico o a farne le spese saranno, ancora una volta, coloro che non possono permettersi il lusso delle tutele, coloro che, per classe, non hanno libertà di scelta e vengono schiacciati dal capriccio di chi rivendica il privilegio di potersela permettere.

 

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