Innovazione

La gestione del cambiamento nel momento giusto e con la postura sbagliata

11 Febbraio 2023

Maschio, caucasico, ultracinquantenne, eterosessuale. La lista relativa al mio profilo potrebbe continuare ma sempre nella stessa direzione ovvero riassumere i principali carattere di dominio della nostra società. Una situazione che nella fase attuale assomiglia alle statue abbattute o sfregiate da parte di minoranze attive sempre più battagliere nel rivendicare uno spazio di maggiore diversità e inclusione o quantomeno un ribaltamento dei rapporti di potere.

In un momento che assomiglia molto a un cambio di paradigma, con le sue strette in termini di conflittualità e contraddizione, è bene che anche chi occupa una posizione dominante si doti di una strategia e di un buon piano, al pari di chi vuole rivoluzionare il quadro. Una posizione che vale soprattutto per coloro che esercitano il loro dominio in modo inconsapevole o scarsamente consapevole, ovvero una larga parte della popolazione, in particolare all’interno di quel contesto un po’ geografico e molto politico culturale che definiamo attraverso svariate etichette come “occidente”, “liberal-democrazie”, ecc. Etichette che peraltro spesso finiscono, esse stesse, sul banco degli imputati.

La strategia più perseguita – e forse proprio per questo la più esposta a utilizzi strumentali – consiste nell’inoculare elementi di cambiamento all’interno dei sistemi mainstream. L’operazione, molto trainata dalla narrativa sui change-maker, denota elementi di ambivalenza rispetto ai cambiamenti attesi. Può infatti risolversi in operazioni di natura “estetica”, oppure in cambiamenti più radicali che coincidono con la redistribuzione delle quote di potere, ovvero della principale risorsa che determina la possibilità di cambiare le regole del gioco.

Per rendere possibile trasformazioni profonde, e dunque reali considerando la natura di sfide socioambientali e tecnologiche che semplicemente non abbiamo di fronte ma sono già tra noi, individuare e sostenere agenti di cambiamento di svariata natura e modalità di azione non basta. Occorre, si sente più spesso dire, creare spazi o contesti nel quali possano agire. Un elemento importante e, di nuovo, fortemente ambivalente perché anche dietro le buone intenzioni di programmi di sostegno all’innovazione allignano proprio quei rapporti di potere che si intendono sovvertire, generando così una clamorosa inversione dei fini.

Vista in questo modo la soluzione sembra essere solo una ovvero una sorta di ritirata strategica che lasci campo libero al cambiamento. Un’intenzionale perdita di controllo che appare utile per meglio innescare processi di cambiamento ma che però in qualche caso rischia di confondere i change maker perché potrebbero trovarsi in una posizione ancor più scomoda di quella abituale. La disponibilità di spazi di azione (strettamente e latamente intesi) consente di sviluppare meglio i loro modelli che però rischiano, prima o poi, di scontrarsi con sistemi di potere che si sono semplicemente (e a volte consapevolmente) ritirati ma non trasformati. E così l’esito potrebbe essere uno schianto ancor più fragoroso (e distruttivo) non solo tra soluzioni ma tra logiche differenti.

Se abilitare gli agenti non basta e se neanche creare spazi per la loro azione è sufficiente, cosa resta da fare? Non sembra esserci più margine per vere e proprie strategie di gestione del cambiamento aprendo così la strada alla sovversione dello status quo, rispetto alla quale peraltro i segnali si moltiplicano non solo a livello di società nel suo complesso, ma anche all’interno delle organizzazioni.

Forse un ulteriore (ultimo?) livello di change management consiste nello spostare il “locus of control” del processo. Nella fase attuale, infatti, a prevalere sono le dinamiche esterne, legate cioè agli elementi infrastrutturali della società che solitamente si definiscono e si riproducono attraverso approcci come quello dei “portatori di interesse” che però appaiono essi stessi contaminati dall’ideologia dominante. Stakeholder sempre più artificialmente definiti non possono che “dialogare” a partire da posizioni precostituite e secondo modalità di natura spartitoria rispetto a risorse date inibendo così qualsiasi processo di generatività trasformativa. Ma se invece il locus si sposta sulle dinamiche interne, legate cioè a esercizi di ruolo individuali e collettivi che mettono consapevolmente in gioco anche i loro tratti ostacolanti, ne emerge una postura rispetto al cambiamento che, anche perché consapevolmente “sbagliata”, consente di attivare e gestire percorsi di innovazione che si propagano nei sistemi, non rimanendo situati in particolari e ristretti contesti o riservati a determinate categorie di organizzazioni e persone con qualità “speciali”.

A riemergere è quindi la dimensione del sé: identità individuali e organizzative dotate di capacità, tutte da educare, di apertura in senso relazionale rispetto alle quali la reinterpretazione dello scambio mutualistico rappresenta un upgrade decisivo in termini d’impatto. Si tratta, a proposito di posture, di un insegnamento utile anche per tutti quei programmi di capacitazione, accompagnamento, accelerazione, coprogettazione che da un approccio meramente procedurale e “ingegneristico” rischiano solo di estrarre, e a loro vantaggio, un ammontare di risorse di cambiamento non all’altezza delle sfide.

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