Cinema
Soheila e Razi: la generazione delle valigie e un film rimasto chiuso dentro
Soheila Javaheri e Razi Mohebi, registi che vivono da alcuni anni in Trentino, sarebbero dovuti partire alcuni giorni fa per l’Iran, per girare una parte del docufilm la cui sceneggiatura ha vinto il Premio Mutti – Archivio Memorie Migranti. E per aggiungere un tassello mancante al puzzle del nostro cinema, che pure prova a raccontare l’immigrazione e la vita in un nuovo paese dimenticando però di coinvolgere in maniera opportuna proprio i migranti. Spesso la nazionalità italiana non è concessa nemmeno ai loro film.
Sul treno che li avrebbe portati a Malpensa i registi sono stati derubati di tutto il necessario per girare. Compreso il certificato di matrimonio. Gli amici hanno deciso di aiutarli concretamente, per quanto possibile. E forse raccontare qui un pezzo della loro storia potrà aiutare.
È il 2007 quando Mohebi è invitato al Religion Today Filmfestival di Trento. Avvertito della sempre più difficile situazione a Kabul decide di rimanere con la famiglia in Italia. Entrambi hanno già un curriculum in ambito cinematografico. Mohebi, afghano hazara (gruppo contro cui si abbattono continuamente violenze di ogni sorta) è figlio di un attivista. Costretto a spostarsi in Pakistan, ha incontrato i trafficanti di uomini e conosciuto la tortura quando era ancora minorenne. Nel 1997 ha iniziato a studiare cinema a Teheran, e con Soheila – anche lei un’attivista – è anche tornato per un periodo in Afghanistan, dove ha creato una propria casa di produzione. Nel 2003 è attore in Alle cinque della sera di Samira Makhmalbaf, premio della giuria a Cannes. I personaggi dei loro film, vincitori di altri premi, esattamente come loro chiedono diritti. Per questo sono considerati tra i peggiori oppositori politici.
Stabilitasi in Italia, la coppia non smette di impegnarsi su più fronti. Fa da megafono della situazione nei rispettivi paesi, della condizione dei richiedenti asilo e della lotta contro le disuguaglianze. Nell’ultimo numero de Lo Straniero c’è un resoconto di quanto i due hanno visto la scorsa estate a Calais, scritto da Mohebi, che avverte: “Il cinema non è sufficiente a raccontare ciò che ho visto. Ho deciso così di provare a spiegare Calais e la sua umanità negata attraverso questo breve racconto, conscio del fatto che nessuna lingua e nessun alfabeto potranno mai sopperire alla mancanza d’umanità di quel luogo.”
Sono inoltre parte del collettivo Per un cinema diverso, formatosi in seguito ad un fortunato incontro bolognese per ragionare su come l’industria del cinema possa diventare un ambiente più inclusivo. E anche in quell’occasione c’è di che prendere appunti: “La mia storia è come quella di Hannah Arendt, Brecht e Nietzsche. Ho 45 anni e non ho un passaporto. Ho solo un titolo di viaggio, che si chiama così ma non posso uscire dall’Italia.” Il collega Alfie Nze chiede a Mohebi di raccontare di più: “In questa società basata sulla legge, io giuridicamente non esisto. Data la mancanza di una legge organica a livello internazionale, non ho diritti. Solo il mio corpo biologico ha migrato, allora? No, anche il mio corpo politico. Di me è stato fatto un copia-incolla, non esiste più il mio originale. Sono come un file pdf che la Legge non apre. Ci vuole una volontà politica e collettiva perché succeda, attraverso il dialogo.”
Non stupisce quindi che anche Sepanta, il figlio, abbia contribuito con alcune osservazioni alla sceneggiatura che la madre ha spedito per concorrere al Mutti. E il 3 settembre è stato pieno di gioia, di soddisfazione, di domande, di risate, di sigarette e d’acqua. Perché pochi minuti dopo aver ritirato il premio al Festival del Cinema di Venezia i coniugi e il seguito di amici, poco interessati alla mondanità sulla terrazza dell’Hotel Excelsior (Razi aveva già vinto il premio due anni prima) hanno invitato tutti a farsi una nuotata. Da un momento all’altro sarebbe arrivato Mohsen Makhmalbaf, il regista di Viaggio a Kandahar e altri capolavori. Loro si sarebbero asciugati in qualche modo, ci avrebbero avvisati della sorpresa giusto un secondo prima e avrebbero abbracciato il Maestro come nulla fosse, conoscendosi da tempo. Soheila avenda parlato proprio del maestro ricevendo il premio. E di Sepanta, naturalmente. Pensando al suo bambino e alla generazione delle valigie descritta da Igiaba Scego aveva scritto nelle note di regia:
“Esistono racconti e narrazioni di questa seconda generazione: hanno lo strumento della lingua italiana e hanno bisogno di trovare la propria identità. Razionalmente, hanno anche bisogno di allontanare noi, ciò che li marca come stranieri. Raccontano di noi genitori per poter aprire nuovi orizzonti. Hanno un futuro lontano. Mio figlio, nella mia terra, l’Iran, non avrebbe futuro. è figlio di seconda generazione. Mio marito è afghano. Il governo iraniano parla di 260.000 bambini figli di migranti, ma molto probabilmente il loro numero arriva a 700.000 e non hanno documenti, non hanno assistenza sanitaria, non possono andare a scuola, non esistono. E se per le seconde generazioni in Italia il futuro è difficile, per loro il futuro sta in un immenso vuoto. Noi raccontiamo di loro? Noi delle valigie stabiliamo la nostra identità percorrendo un viaggio a ritroso. Parliamo spesso del nostro vissuto nostalgico, ma non riusciamo a comprendere le esigenze dei nostri figli. Per me questo film è un pol, nella lingua di mio figlio “ponte”. Forse mio figlio vuole un armadio, ma vorrei prima fare con lui una valigia.
Sepanta, ho sentito l’abisso tra la mia e la tua generazione, ho deciso di costruire un ponte. Forse un giorno deciderai di attraversarlo, forse no. Ma almeno io ho provato.
La generazione delle valigie racconta poco, è molto indaffarata, la valigia pesa, anche quando si dorme si sente la sua pesantezza.
Sapevamo fin dal principio che voi nelle nostre valigie non entrerete mai. E forse anche le nostre valigie rimarranno immobili, sopra un armadio, sopra un petto, sopra un pensiero.”
Delle valigie che avrebbero dovuto portare tutti e tre in viaggio non si sa più niente: rubate prima ancora di raggiungere l’aereoporto. Sepanta avrebbe potuto vedere i nonni iraniani dopo molto tempo, ma pure lui dovrà attendere, forse non tanto quanto i genitori. Tutto quello che sanno e che sappiamo, valigie a parte, è che questo film si farà.
P.S.
Razi Mohebi è il filosofo che tutti desiderano avere come amico, ma è un filosofo atipico e non se la prenderà se riportiamo solo una parte di quanto detto al workshop di Human Rights Nights. La parole di Soheila Javaheri, invece, si possono leggere per intero sulla pagina Facebook del loro progetto.
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