Diritti

La dimensione della scuola che non appiattisce ma amplifica

7 Febbraio 2021

“Qualcuno ti dirà che la scuola serve solo se riesce a trovarti un lavoro. Non credergli. La scuola serve se riesce a fornirti gli strumenti per gestire un sentimento, smascherare un ciarlatano e ammirare un tramonto, non solo una vetrina.”

 

Non so se la frase con cui Marzullo ha storicamente terminato le sue interviste- La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio- sia riconducibile a quella con cui Gremellini termina i suoi racconti -fate bei sogni-.

Entrambi m riportano al titolo di un film di Bellocchio in cui Valerio Mastandrea, nel ruolo di protagonista, vive una vita in cui non riesce a legarsi seriamente a una donna in seguito al dramma vissuto durante l’infanzia quando la madre morì. Solo in età adulta scopre che a causare la sua morte non era stato l’infarto, ma aveva scelto di suicidarsi.

Nel romanzo di Roth “Lasciar Andare”, uno dei personaggi, Pat Stigliano, si fa portatrice della propria teoria educativa secondo la quale ai bambini bisogna raccontare la realtà.

Ho sempre creduto che la scuola sia quel luogo non avulso al contesto sociale, un posto in cui il mondo deve entrare pur con i suoi orrori, ingiustizie, miserie, fortemente radicato nella realtà su cui si innesta, un luogo però dove non si abbandona la dimensione del sogno, della speranza, della capacità di pensare che la conoscenza, la partecipazione possa intervenire apportando un contributo personale sul reale.

Sin dalla scuola elementare, infatti, attraverso il racconto di storie, si favorisce la nascita di sentimenti quali la condivisione, la compassione, la capacità di mettersi nei panni dell’altro. L’educazione alla legalità ha come obiettivo che la regola non venga solo imparata, ma interiorizzata, si simula in classe un‘aula parlamentare, si discute un progetto di legge, si racconta di figure come Falcone o Borsellino, ci si reca a visitare il l’albero Falcone.

In una scuola secondaria a maggior ragione, temi di attualità scottante non possono rimanere confinati al mezzo televisivo o a internet. Oggi più che mai, la realtà ci “aggredisce”, l’accesso all’informazione è molto più immediato e, grazie ai social, diventa quasi impossibile non conoscere un fatto. Sul quel fatto, la scuola ha il dovere di lavorare, deve analizzare, scandagliare, porsi delle domande perché nel bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti, il fatto non resti una notizia neutra, ma passi dalla pura conoscenza alla capacità di sentirlo. É necessario Indagare e cercare di capire cosa determina un fenomeno, cosa provoca delle reazioni, in tal senso materie più propriamente umanistiche tendono ad affinare la sensibilità.

Parlare di differenze di genere, di sopraffazione dell’essere umano, di violazione dei diritti umani, del perché Giulio Regeni, mente brillante e ragazzo da considerare esempio abbia trovato una morte atroce in Egitto, è necessario, è doveroso sapere e immaginare perché Patrick Zaki  è  detenuto, sotto tortura,  da quasi un anno  in un carcere egiziano. È indispensabile sapere che in un regime dittatoriale un giudizio espresso sul proprio paese vuol dire rendersi colpevole di propaganda sabotatrice, e che esprimere un gusto sessuale è fonte di peccato.

La scuola è quel luogo dove si impara a studiare non per imparare a fregare, come recitava una vecchia canzone di Luca Carboni, perché si impara a comprendere e la comprensione non può che passare dalla compenetrazione, dall’accettazione dell’altro, a prescindere da quale sia il suo orientamento sessuale, dal modo di portare i capelli, dagli abiti che indossa, dalla forma che decide di assumere a dispetto della propria natura.

Durante questo periodo di pandemia ci sono stati negati i diritti più elementari, abbiamo fatto a meno di cose che davamo per scontato. Persino il ritorno a scuola non ha significato il ritorno all’atmosfera precedente alla diffusione del virus, perché nelle aule dei corridoi non ci si incontra più, né si dà appuntamento alla ragazza che ci fa battere il cuore, non si condivide una merenda al bar, non si abbraccia più l’amico sebbene non l’abbiamo visto per mesi, non si stabiliscono complicità. Se il virus è diventato il dittatore delle nostre vite sicuramente più scarne di umanità, quanto insopportabili potranno essere le restrizioni vissute durante una detenzione?

Se lo starsene rinchiusi ha determinato l’aumento di depressioni, quale sarà l’effetto provocato da una reclusione disumana sulla mente di un ragazzo che voleva solo vivere liberamente, facendo dell’aiuto all’altro l’obiettivo della sua vita?

Della scuola abolirei i grembiuli, perché tendono ad appiattire, a rendere uguali, a abolire le differenze di classe, riproducono l’idea dell’uniforme, una menzogna, perché siamo diversi ed è l’incontro con la diversità che arricchisce. Sostituirei, inoltre, l’espressione vado a scuola col faccio scuola, perché non è l’involucro che questa tende a creare, ma il nocciolo che intende produrre; soltanto così la scuola coniuga quel reale che non ha paura di fare sogni, perché non cela ma svela, perché crede ancora nella possibilità di ciascuno di fare la differenza apportando un cambiamento.

 

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