Partiti e politici

La destra populista sotto assedio

15 Luglio 2020

[Tempo di lettura: 11 minuti]

Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America. Tre Paesi accomunati dall’essere stati i primi laboratori politici di una destra populista che dalla metà degli anni ’10 ha saputo trasformare in consenso elettorale il forte senso di risentimento popolare nei confronti delle élite. Tre Paesi in cui osserviamo dagli ultimi mesi un drastico calo di popolarità dei leader che si sono fatti portavoce di questa rivolta nei confronti dell’establishment: Matteo Salvini, Boris Johnson e Donald Trump.

Cosa accomuna questi tre outsider della politica? A dire il vero non molto, se non che i media mainstream li hanno raggruppati sotto l’etichetta spesso vaga e imprecisa di “populismo”, un termine che la sclerotizzazione tecnocratica degli ultimi cinque o sei decenni vissuta dall’Occidente aveva dimenticato in un cassetto e derubricato a fenomeni marginali e geograficamente situati al di fuori del “Primo mondo”. Sotto questa etichetta che denomina più una modalità politica piuttosto che un vero e proprio programma si cela la risposta delle classi medie al fenomeno di declassamento che hanno subito nell’ultimo decennio, quando la crisi economica del 2008 ha imposto politiche di austerità che hanno spazzato via definitivamente tutte le promesse di mobilità sociale, velleità sulla quale si fondava il patto sociale tra classi dominanti e subalterne. I Salvini, i Johnson, i Trump sono stati più bravi di altri a sintonizzarsi con questo stato d’animo, con questa richiesta di politiche protezioniste in economia, nella speranza di rilanciare un settore manifatturiero in lento declino a causa degli effetti di una globalizzazione “al ribasso”, ma anche nella cultura, facendosi portavoce di istanze dalle tinte spesso xenofobe e razziste in difesa di valori tradizionali percepiti sotto attacco dal cosmopolitismo liberale. Gli ultimi mesi però sono stati teatro di profondi e radicali mutamenti dell’ordine globale. Dalla città cinese di Wuhan ha preso a diffondersi intorno al mese di dicembre 2019 un virus che rapidamente si è diffuso in tutto il mondo costringendo al confinamento forzato nel mese di aprile 2020 quasi la metà della popolazione mondiale e contagiando ad oggi oltre tredici milioni di persone. A questo evento catastrofico ancora in divenire vanno aggiungedosi anche le proteste sociali che dall’epicentro di Minneapolis negli Stati Uniti d’America, luogo in cui si è consumato il barbaro assassinio di George Floyd ad opera di un poliziotto, si sono diffuse nell’Occidente europeo con la richiesta di una ridefinizione più ampia dei rapporti tra minoranze e ceti dominanti sul piano sociale e culturale.

 

Sembra passato chissà quanto tempo dalla torrida estate del Papeete in cui Matteo Salvini, galvanizzato dall’inaspettato 34% delle elezioni europee di maggio 2019, tentò il colpo di mano provocando una crisi di governo. L’aspettativa era quella di andare al voto anticipato e così facendo di cementare nelle urne il consenso che i sondaggi proiettavano su una coalizione di centrodestra all’apparenza più coesa del turbolento esperimento giallo-verde. Sappiamo che invece la crisi si risolse con la formazione di un nuovo esecutivo in cui Conte si trasformò da “avvocato del popolo” a leader di una insolita coalizione di centrosinistra i cui azionisti principali sono tuttora il Movimento Cinque Stelle e il Partito Democratico. Cosa è cambiato da allora? È cambiato che la Lega ha visto una caduta verticale nei sondaggi: dal 34% delle europee di maggio ha perso quasi 10 punti percentuali. Ora solo un italiano su quattro se fosse chiamato al voto sceglierebbe la Lega. Il calo più vertiginoso si registra a partire da marzo, cioè da quando la pandemia ha colpito il nostro Paese, prima vittima europea. L’effetto di coagulo del consenso attorno all’esecutivo nei periodi di crisi ha fatto perdere al leader della Lega quella capacità di occupare lo spazio mediatico dettando giornalmente l’agenda dell’informazione che aveva in precedenza forgiato la sua strategia di costruzione del consenso elettorale: il coronavirus ha messo i bastoni fra le ruote alla Bestia, donando un’inaspettata fiducia popolare ad un governo, quello giallo-rosso, che era stato fino ad allora letto dall’elettorato come un maldestro tentativo delle forze di opposizione di tenere il Capitano lontano dal timone. D’altra parte questa fiducia elettorale s’è spostata più verso Conte, il premier senza partito, che in direzione degli azionisti che compongono la sua maggioranza secondo un corollario del cosiddetto effetto rally ‘round the flag: il consenso cementato attorno al Primo Ministro nel periodo di emergenza sanitaria ha dato la possibilità a Conte di personalizzare il governo giallo-rosso e di dominare il dibattito pubblico, estromettendo mediaticamente e giuridicamente le istituzioni di mediazione democratica (come il Parlamento) all’interno del quale operano le forze di maggioranza e opposizione. Il leader del Carroccio è però vittima di malumori anche alla sua destra. Molti gli rimproverano un posizionamento politico oscillante tra un sovranismo radicale e un più pacato indirizzo moderato che ha favorito un travaso di consensi verso l’alleato del centrodestra di Giorgia Meloni e la nascita di soggetti politici che rivendicano un sovranismo più intransigente. Sotto questa lente potremmo leggere anche la nascita del fenomeno politico dei Gilet Arancioni del generale Pappalardo: dietro all’humor suscitato dalle strampalate dichiarazioni di chi denuncia la tecnologia 5G e i vaccini si situa in realtà il profondo malcontento verso un cambiamento che il governo giallo-verde ha promesso ma non è stato capace di perseguire. Alla finestra, pronto ad approfittare di questo declino dell’opzione populista c’è il giornalista fuoriuscito dal M5S Gianluigi Paragone che sta da tempo valutando la nascita di un nuovo partito politico che abbia come obiettivo principale quello di spingere l’Italia fuori dall’euro, promettendo di rappresentare tutti i delusi dal governo del cambiamento per indirizzarli verso l’obiettivo primario dell’Italexit. Paragone ha le potenzialità mediatiche e politiche di diventare il Nigel Farage italiano, se non di ottenere un successo elettorale, quantomeno di svolgere un ruolo di pressione nei confronti di un fronte sovranista diviso tra i malumori dell’elettorato e l’effettiva fattibilità dell’opzione anti-europea.

 

Il vero Nigel Farage rappresenta invece un’insidia per Boris Johnson. Oltre il canale della Manica, alla domanda sull’apprezzamento dell’operato di Boris Johnson come Primo Ministro solo il 44% dei britannici risponderebbe di essere soddisfatto, quando appena tre mesi fa erano due terzi i sudditi della corona che gli avrebbero dato fiducia. Dalla luna di miele cominciata con il Paese il 12 dicembre, quando il Get Brexit done conquistò l’opinione di una schiacciante maggioranza di elettori confusi dal posizionamento oscillante del Labour di Jeremy Corbyn sul tema principe della campagna elettorale, la risposta alla pandemia ed alle proteste del movimento Black Lives Matter hanno duramente inficiato il consenso dell’esecutivo dei Tories. All’inizio del mese di marzo aveva destato particolare scalpore la scelta del premier britannico di adottare una strategia inversa rispetto a quella del lockdown fino ad allora messa in atto da Cina e Italia. Per salvare l’economia dalle catastrofiche conseguenze di una chiusura imposta, il governo sembrava aver deciso di lasciare aperte le attività lasciando che la malattia facesse il suo corso fino al raggiungimento dell’immunità di gregge. Il corso degli eventi, l’aumento dei contagi e dei ricoveri e la situazione critica di un National Health Service ridotto all’osso dai continui e ripetuti tagli alla spesa sanitaria hanno però scombussolato le carte in tavola, imponendo anche oltremanica la strategia di contenimento del lockdown che tuttavia non è riuscita a scongiurare il primato di morti in Europa alla Gran Bretagna. BoJo ha risentito anche dell’eco delle proteste americane che ha dato il là ad una guerra culturale tra due fronti radicalmente contrapposti e parzialmente sovrapponibili a quelli dei Leavers e dei Remainers. La condotta dei conservatori nella cosiddetta “guerra delle statue” ha attirato attorno a Johnson le critiche della destra più conservatrice e nazionalista: costoro giudicano non soddisfacente la risposta nei confronti di un movimento da molti definito pericoloso e sovversivo, se non addirittura neo-marxista e dai tratti anarcoidi. Per quanto il Primo ministro Johnson abbia tuonato contro i manifestanti, si è mostrato in difficoltà nel respingere le loro richieste più radicali e questo non va giù a Nigel Farage, il vero outsider che potrebbe approfittare di questo periodo di crisi, ex leader dell’UKIP e del Brexit Party. Il suo obiettivo secondo alcuni commentatori potrebbe essere quello di sfruttare la sua figura carismatica per rianimare un Brexit Party in senso nazionalista e conservatore non tanto per scalzare i Tories nelle urne (difficile se non impossibile per il sistema elettorale britannico) quanto piuttosto per esercitare pressione sugli stessi affinché i Conservatori sposino una linea più conservatrice di quella che sembrano mostrare.

 

Fatte le dovute distinzioni, possiamo osservare come anche sull’altra sponda dell’Atlantico si sia definita una situazione analoga con Donald Trump che vive da aprile un netto calo di popolarità con le elezioni presidenziali alle porte. Qui la pandemia si è fatta sentire più che da ogni altra parte: sono oltre tre milioni gli americani contagiati dal virus e 135mila i morti. Inizialmente scettico sugli effetti del virus, ha poi iniziato ad incolpare i cinesi, quindi ha imbastito uno scontro mediatico con i governatori democratici sulla riapertura e concesso numerose dichiarazioni scientificamente discutibili alla stampa. In un Paese che soffre l’assenza di un adeguato sistema di welfare e di tutele per i lavoratori sono aumentate a dismisura le domande di disoccupazione e con esse una fetta di popolazione che demandava la fine di restrizioni imposte dai governatori democratici percepiti come freddi tecnocrati. Nel mese di aprile molti di questi, foraggiati da membri del Partito repubblicano vicini alla presidenza e spinti dai media conservatori Fox News e Breitbart, sono scesi in piazza per difendere le proprie libertà personali in ostaggio del lockdown in una protesta allo stesso tempo libertaria e populista contro la quarantena. L’assassinio di George Floyd e l’eco mediatica che ha seguito l’ennesima manifestazione di brutalità delle forze dell’ordine americane ha poi rinfocolato tensioni razziali mai sopite tra la minoranza afroamericana e la maggioranza bianca. Trump ha scelto di rispondere con ordine e repressione, non indietreggiando di un millimetro, ma il movimento Black Lives Matters ha saputo mettere all’ordine del giorno richieste di giustizia razziale, di ridimensionamento delle forze di polizia e di trasformazione dello spazio urbano riuscendo ad influenzare la maggioranza degli americani (anche bianchi) che ancora si schiera dal lato dei contestatori.

 

È sicuramente troppo presto per dare giudizi definitivi su questa crisi dei leader che hanno sconquassato il nostro panorama politico dell’ultimo decennio. È verosimile che la recessione economica che ci attende, di cui stiamo già vivendo i prodromi, rinfocolerà gli animi degli opposti estremismi: l’opzione politica populista non è affatto scemata nell’opinione pubblica, piuttosto potrebbe migrare verso soggetti politici nuovi e più radicali qualora Salvini, Johnson e Trump non riuscissero a riprenderne il controllo. Sul fronte della guerra culturale osserviamo già un tentativo di risposta all’ondata di protesta che ha posto l’accento sull’inclusività razziale in Occidente: la lettera firmata da 150 scrittori, accademici, giornalisti e intellettuali contro gli eccessi del politically correct, pur riconoscendo le ragioni di giustizia dei contestatori, potrebbe essere involontariamente interpretata come una reazione a quei meccanismi giudicati censori e oscurantisti con i quali i bianchi non si sentono a proprio agio. È difficile immaginare che la guerra culturale nel quale l’Occidente è ripiombato possa placarsi in una pace che contempli un superamento dei meccanismi di discriminazione ed assoggettamento dei quali alcuni ceti sociali sono vittime, piuttosto, quella stessa classe media bianca che ha supportato l’ascesa della nuova destra, sotto la minaccia di subire un’ulteriore declassamento, potrebbe riaprire le ostilità spianando la strada ad una seconda ondata di populismo dalle tinte più radicali nella speranza velleitaria di recuperare un prestigio che va sempre più declinando.

Dall’altra parte, i leader progressisti sembrano essersi resi conto che il miglior modo per affrontare i propri rivali sia di non fare nulla, di rimanere a guardarli mentre si logorano nel loro avventurismo, dando un’immagine moderata e tranquilla di loro stessi all’elettorato. La strategia dell’opossum può essere funzionale nel breve periodo, ma è inefficace nella risposta all’intero arsenale culturale che abbiamo visto essere stato mobilitato negli ultimi anni. La finestra del dicibile si è ampliata a dismisura, l’opinione pubblica appare sempre più radicalizzata e questa è già una vittoria della destra populista che la crisi degli ultimi mesi non riuscirà a scalfire. Sembra mancare completamente la capacità di sintonizzarsi con gli umori dei propri elettori, di dimostrare di aver fatto tesoro di questa protesta e di proporre un’alternativa credibile per salvare oppure trasformare in senso progressista la crisi che la democrazia rappresentativa sta vivendo da almeno un lustro a questa parte. Il mondo è cambiato in modo irreversibile, ora tocca prenderne atto. Una classe dirigente vecchia e troppo attaccata agli stilemi retorici del recente passato, non sarà mai in grado di sintonizzarsi adeguatamente con un’opinione pubblica che non considera più come un tabù l’interventismo statale e che richiede maggiore giustizia sociale a fronte di problemi globali sempre più pressanti.

 

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