Relazioni

La crisi della conoscenza e la nascita della civiltà del rancore

23 Agosto 2019

Viviamo in un’epoca di profondo mutamento dei paradigmi culturali, in cui, si dice, troppo spesso si cerca di dare una lettura ai temi politici, sociali, etici di oggi con schemi antiquati. Si parla di complessità del contemporaneo e, sicuramente, sotto molti aspetti le grandi rivoluzioni di fine Novecento hanno creato le premesse, in primis sotto il profilo dei cambiamenti nel mondo della formazione e informazione, per questa complessità che a tratti sconfina nel caos. Formazione e informazione infatti sono andate di pari passo sostanzialmente per centinaia di anni: chi informava era formato per informare, che si trattasse dello scrivano di corte che preparava i dispacci da inviare o del corrispondente che radiotrasmetteva i suoi pezzi da oltreoceano. La cultura e l’informazione sono sempre state caratterizzate quindi, nel corso della storia, dalla mediazione. Questo fino a quando la comparsa della rete – nata fra l’altro, in ambito accademico, per permettere una più rapida comunicazione dei saperi – le ha disintermediate, ponendo – in una falsa illusione democratica – tutti sullo stesso piano. Fino ad un certo punto non ce ne siamo resi conto. Ogni rivoluzione silenziosa – le più durature – prevede un tempo di latenza nel quale, chi apparteneva al vecchio sistema, si illude che possa trattarsi solo di una fase, che in fondo le cose, dopo un periodo di “moda” o “innamoramento” continueranno a procedere seguendo le strade già battute. Internet non prenderà mai il posto dei giornali. Internet non prenderà mai il posto della televisione. Questa evoluzione, indipendentemente dalle dinamiche di mercato connesse, ha causato una modifica profonda alla nostra percezione dei saperi e, al contempo, ci ha lasciato impreparati rispetto alla capacità di selezione dell’informazione ricevuta. Non si tratta, come sostiene qualcuno, solo di un problema legato alle nuove generazioni che, anzi, spesso da native digitali si scoprono più attente e diffidenti rispetto alla rete, ma di tutti coloro che non hanno maturato un approccio esclusivamente fideistico nell’informazione, di chi – dalla scuola al lavoro, passando per le relazioni interpersonali – non ha sviluppato la competenza del dubbio e della domanda.

Per apprendere infatti occorre avere fede nella fonte d’informazione, ma – preliminarmente – bisogna saper comprendere a quale fonte rivolgersi.

In questo disorientamento generale sembrano mancare i più elementari punti di riferimento per potersi muovere consapevolmente non tanto nel mondo della cultura o dei saperi, ma nel quotidiano. Forse perché, come si diceva in premessa, si continua a guardare la realtà con schemi conoscitivi appartenenti al passato. Il passato però ha molto da insegnare anche al contemporaneo, ad esempio rispetto all’importanza di saper riconoscere, e quindi anche – al bisogno – scardinare, il sistema di pensiero/relazione sociale, nel quale viviamo immersi, talvolta inconsapevolmente.

Un esempio concreto può aiutare. In questi mesi abbiamo sentito ripetere, all’infinito, il racconto della rete che avrebbe sdoganato i disvalori del presente. Istigazioni all’odio, al razzismo, invettive contro il nemico politico di turno, sovraesposizione del privato e sua relativa cannibalizzazione. Perché accade? Perché c’è la rete e la rete ha permesso al pensiero da bar di trovare un nuovo palcoscenico. Quello che una volta veniva raccontato fra un caffè e un bianchino ora si racconta in una piazza più grande. Ma siamo sicuri che sia solo questo? L’esempio infatti non è del tutto calzante. Anche la “dinamica da bar” è mutata nel corso di questi anni, pur in modo più sommesso. Il diritto di parola, un tempo rivendicato, con tono voltairiano dalla elitè anche per chi esprimeva un pensiero differente dal proprio, implicava comunque l’elaborazione di un pensiero. Altrimenti restava nell’ambito – basso, non qualificato – della chiacchiera. Da bar appunto, luogo dove fino a tempi recenti (soprattutto nei paesi e nelle piccole cittadine), insieme all’altro luogo deputato alla conversazione popolare – la piazza – si viveva ancora la socialità secondo il paradigma classico della società della vergogna. Di cosa si tratta? In estrema sintesi, secondo l’antropologa culturale Ruth Benedict le civiltà, antiche e contemporanee, si strutturerebbero intorno a due possibili modelli di relazione fra gli individui: quella basata sulla vergogna e quella basata sulla colpa. Nella prima i comportamenti vengono determinati da ciò che il nostro contesto di riferimento pensa, o potrebbe pensare, di noi, nella seconda da un sistema di controllo morale che sfrutta il senso di colpa individuale.

Procedendo ancora con un esempio: la frase “Tutti i migranti dovrebbero essere lasciati morire in mare”, che rimbalza da tempo via social, in entrambe le società risulterebbe difficile da pronunciare pubblicamente. Nel caso della società di vergogna, pronunciare una frase del genere infatti potrebbe causare la reazione da parte dei presenti e la messa in ridicolo dell’oratore, che la volta successiva non si esprimerebbe più al bar. Questo non per un mutamento di pensiero, ma solo per evitare la vergogna. Allo stesso modo una radicata cultura della colpa (pensiamo ad esempio a tanti dei retaggi propri della morale cristiana, cattolica o protestante) provocherebbe, nel momento stesso in cui il pensiero venisse formulato, il senso di colpa per quanto pensato e quindi il silenzio. I due paradigmi quindi ad oggi sono superati? In parte sì, ma non del tutto. Restano presenti in molte situazioni di carattere sociale, ma da una parte il modificarsi di ciò che è ritenuto degno vergogna e/o di colpa, dall’altra lo sviluppo di un nuovo tipo di paradigma, quello del rancore, li hanno profondamente alterati.

Per quanto riguarda il cambiamento degli argomenti in favore dei sentimenti di colpa e vergogna l’analisi è banale: la maggioranza della popolazione non ritiene più degno di senso di colpa o vergogna un dato comportamento (o affermazione) e – qui sì complice la rete – dato che la maggioranza, a differenza di un tempo, quando i parametri venivano dettati da un’élite (i professori, i preti, le istituzioni), determina i parametri per “contagio” (o emulazione) il cambiamento avviene.

L’affermazione “I migranti devono essere lasciati morire in mare” in una civiltà di colpa/vergogna indirizzata ad esempio da un’élite cattolica non avrebbe avuto diritto di cittadinanza, ma sarebbe stata “repressa” e l’emulazione non avrebbe trovato spazio. Il razzismo, la difesa del proprio territorio sono concetti presenti da sempre. Trovano maggiore o minore spazio a seconda di quanto ne viene concesso da altre espressioni di pensiero. E qui si arriva al cambiamento più radicale e, in questo senso, difficile da dominare se si continua a pensare soltanto in termini di comunicazione e media, perché esula da questo ambito e sconfina nell’etica sociale. Abbiamo assistito in questi decenni all’affermarsi di un altro sentimento guida per la società: il rancore. La società del rancore si alimenta di un confronto al rialzo sui torti che, individualmente, le persone ritengono di aver subito, deresponsabilizza rispetto alle scelte personali (cosa che non accadeva nelle civiltà di colpa e vergogna) scaricando sull’“altro” il peso di un disagio che un tempo implicava invece un mutamento personale, fa del risentimento (che a sua volta si alimenta di invidia, antipatie e odi immotivati, percezione irrazionale di una “sfortuna”) la sua guida. La società del rancore rende lecito attaccare l’avversario politico sul piano personale, perché porta a odiare l’individuo più che il pensiero, permette di portare avanti critiche basate sul solo confronto immediato fra elementi, non implica alcun impegno di studio, approfondimento e formazione.

La società del rancore si nutre (e allo stesso tempo genera) della disinformazione, perché implica intrinsecamente il venir meno delle domande, sostituite da risposte spesso incongrue rispetto al problema. Inoltre deresponsabilizza quelle che, un tempo, dovevano essere le élite, perché possono inseguire l’onda evitando di organizzare elaborazioni di pensiero complesse e procedendo per sentimento/slogan.

Un ultimo esempio, sempre tratto da uno dei temi caldi di attualità. Sono un cittadino italiano che vive in una situazione di disagio economico. Provo risentimento per il fatto che non posso permettermi lo stile di vita che vorrei. Non mi interrogo (e pochi in realtà hanno interesse a darmi modo di approfondire) sulle cause vere del mio risentimento, ma lo coltivo, forte del fatto che è condiviso da tanti altri, ma non agisco insieme a loro per analizzare la situazione o costruire un’alternativa. Individuo un elemento esterno (anche grazie alla “mediazione” culturale di alcuni soggetti) quale capro espiatorio. Partecipo al racconto del risentimento collettivo, che non porta ad alcun innalzamento del dibattito, ma a una stasi rancorosa che richiede sempre però un oggetto verso il quale scagliarsi.

Questo a cosa porta? Se dalla colpa e dalla vergogna, pur sentimenti ai quali volentieri rinunceremmo come individui, potevano generare una reazione costruttiva, il rancore non è un sentimento sociale generativo (secondo quanto espresso da Erikson in contrapposizione al circuito adolescenziale della libertà stagnante e ai suoi numerosi risvolti sociali), ma, appunto, stagnante. La stagnazione ferma il corso del dibattito culturale. Fino a quando la stagnazione non diventa completa e la società, inevitabilmente, marcia dal punto di vista sociale.

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