Milano

“Insieme senza Muri” è già la sinistra di domani

13 Maggio 2018

Pur essendosi manifestata già a partire dal referendum costituzionale del dicembre 2016 con la forza delle profezie che si autoadempiono teorizzate da Robert Merton, la sconfitta del Partito Democratico nella tornata elettorale del 4 marzo scorso, la consistenza al minimo storico del consenso raccolto e la fase interlocutoria che si è aperta nelle settimane successive hanno determinato a più livelli l’apertura di un dibattito sull’identità della sinistra e la sua necessità di una sua riconfigurazione. Nelle tornate elettorali i partiti acquisiscono e perdono voti, ma è solo quando li vedono diminuire che sentono di aver perso il passo rispetto alle trasformazioni della società. Quando vincono invece si opera di solito uno scambio logico tra misura del consenso e capacità di interpretare le sfide dei propri tempi.

È indubbio per esempio che buona parte dell’esito delle elezioni politiche di due mesi si è giocato sul tema dei profughi, a fronte del fatto che nell’ultimo anno il numero di arrivi di migranti sia drasticamente sceso per la prima volta dal 2013, così come quello delle richieste di asilo, che sono in forte calo a livello nazionale. Su questo tema la sinistra ha continuato per lo più a essere se stessa nell’azione delle amministrazioni locali e nella società politica. Ha fatto più fatica a farlo nell’azione di governo, ed è curioso che proprio davanti alla constatazione della sconfitta del voto dai militanti di base del Partito Democratico-almeno a stare al dibattito in corso in circoli e sezioni- qualcuno s’interroghi sulla necessità di rivedere le politiche d’accoglienza, senza accorgersi che la Minniti-Orlando, comunque la si voglia giudicare (e nei distinguo necessari tra lettera e applicazione), non ha portato più voti.

La sinistra è tale quando, come spiegava Gilles Deleuze nelle interviste contenute in “Abecedario”, il libro-documentario del 1996, “considera i problemi del terzo mondo più vicini a noi dei problemi del nostro quartiere”. Elementare, no? Guardando ai migranti, la destra parte dalla via, poi dalla città e arriva allo Stato, alle politiche. La sinistra parte dal mondo e non può concedersi il timore di essere minoritaria dentro casa propria, perché quello non può essere mai il suo orizzonte di riferimento. Al limite può porsi un perimetro d’azione, quando pensa in termini di territorio, ma appena lo fa non sta più ragionando su di uno spazio in astratto, ma sulla comunità composita che lo abita e attraversa. “È veramente una questione di percezione, non di anime belle, no. Prima di tutto è questo per me essere di sinistra”, continuava Deleuze.

Pensavo a questo scarto, a come cioè abbiamo ben chiara qual è la nostra percezione dei fatti, e delle conseguenze di questa consapevolezza, leggendo in questi giorni il programma di “Insieme senza Muri”, l’iniziativa che l’anno scorso ha dato vita al festoso corteo del 20 maggio, a cui parteciparono centomila persone (vedi il video reportage qui sotto), e che quest’anno ha ampliato i propri obbiettivi, immaginando un mese intero di incontri, feste, dibattiti, occasioni di confronto e approfondimento sul tema dell’accoglienza, dell’inclusione, della convivenza e della cittadinanza, dal momento iniziale che coinciderà con la ricorrenza della marcia del 2017 sino al 23 giugno, quando al Parco Sempione prenderà vita una lunghissima tavolata multietnica contro cui le destre per mezzo dei quotidiani d’area nelle scorse settimane si sono accanite ottusamente, definendola un “pranzo pagato per 50mila migranti”, offendendo nello stesso tempo il lavoro degli organizzatori, il diritto all’informazione e la propria intelligenza.

Quel che invece andrà in scena tra pochi giorni è un palinsesto che in Italia non ha precedenti, coordinato da Insieme Senza Muri (al link il programma e le informazioni complete sulle modalità di autofinanziamento dell’evento) e promosso dall’Assessorato alle politiche Sociali del Comune di Milano, ma che ha poi come protagonista tutte quelle realtà che, come ha spiegato Daniela Pistillo, presidente del comitato organizzatore, “Ogni giorno, spesso lontano dai riflettori, si mettono in gioco a vari livelli e in vari settori per costruire pezzetti di inclusione e partecipazione”.

https://www.facebook.com/20maggiosenzamuri/videos/1816901085039884/

Qualche mese fa, pensando all’evento del 20 Maggio e a una sua possibile riformulazione-l’organizzazione dell’evento di quest’anno muoveva allora i primi passi-avevo immaginato di proporre al comitato una lettura pubblica di “A Calais”, il reportage che Emmanuel Carrère ha scritto due anni fa dal luogo simbolo delle politiche europee sull’immigrazione. Non già perché vi fosse una dimensione in alcun modo rapportabile della questione migranti, ma per la materia di quel testo, che si concentra sul rapporto tra la comunità degli abitanti della città francese e la presenza dell’accampamento di coloro che tentano di raggiungere il Regno Unito via mare o con l’Eurotunnel. Di fatto mi accorgo ora che “Insieme senza muri” si dispiega esattamente come quel testo, attraverso i contributi, le azioni, il pensiero di tutti coloro che vivono la domanda d’inclusione come il tema attorno a cui oggi si posiziona la coerenza della nostra società al valore fondativo di una convivenza basata sul riconoscimento della piena dignità dell’identità di ciascuno.

Oggi questo tema è diventato una sfida, perché da un lato, come scrive il Comitato Insieme Senza Muri, “…c’è una metropoli che integra attraverso il lavoro, la conoscenza, la reciprocità, la condivisione, la voglia di darsi da fare”, mentre dall’altro c’è un Paese che è rimasto indietro, e interpreta la propria incapacità di immaginare il futuro con quella che mi viene da chiamare, riecheggiando il titolo di un libro formidabile dello storico Jean Delumeau sulla storia della paura nell’Occidente cristiano, una “sindrome da città assediata”. Eppure, se si riguarda il video del meraviglioso corteo dell’anno scorso, i suoi colori, i suoi suoni, non puoi che riconoscere che quel “film” lo conosciamo già, perché ci viviamo dentro tutti i giorni, sono il nostro “Manhattan Transfer”, l’affresco di una città e di una comunità, della spinta ascensionale che ne determina la crescita, e di come questa spinta, grazie agli sforzi di tutti, nativi, residenti, di passaggio, produca un cambiamento del corpo sociale. Pierre Bourdieu ne “La miseria del mondo”, che risale ormai al 1993, parlò per primo di “miseria di posizione”, quella che si genera in uno spazio fisico degradato, precario e instabile, a cui si è legati per nascita senza possibilità di uscirne. Quel tipo di miseria in qualche modo, con grande gradualità, ha cominciato a essere rimossa, per un meccanismo di eterogenesi dei fini dei processi di globalizzazione. In quel testo il sociologo francese faceva emergere per la prima volta la differenziazione e frammentazione per linee etniche e generazionali dei ceti popolari contemporanei. È questo il folk dentro cui siamo ancora, questa la fotografia: uscendo dal proprio destino di miseria di posizione, una parte sempre più consistente di diseredati si muove, con formidabile slancio vitalistico, verso prospettive inedite. Di contro il declino della società del benessere nel nostro mondo ha prodotto un nuovo paradigma esistenziale, più spietato, meno civico e solidale, che identifica la difesa della propria residuale rete di protezione sociale statuale nel respingimento di questo processo epocale.

Un momento del corteo del 20 maggio 2017.

Tornando a Deleuze, la lettura delle implicazioni di questo movimento e contrasto, dal mondo al quartiere, non può che apparirci evidente, e la scelta di campo necessaria. Ma se anche mettiamo tutto ciò tra parantesi, se da una prospettiva a volo d’angelo scendiamo a livello marciapiede, quello in cui ci imbattiamo è una specie di schiacciamento dei suoni verso un centro, di sovrapposizione dei colori, come in “On the corner”, il disco capolavoro di Miles Davis del 1972 che allora la critica fece a pezzi perché non era jazz, e che invece era semplicemente il racconto parossistico dell’annullamento della distanza tra i suoni e i rumori della strada, del luogo in cui viviamo, della gente che siamo, generato nel punto d’incontro e di snodo casuale da cui tutti passiamo e che non appartiene per primazia a nessuno.

Non so quanti milanesi, di sinistra o di destra, abbiano difficoltà nel riconoscersi nell’immagine di “…una città che ha scommesso su chi è arrivato da lontano. Una città che ha accolto migliaia di profughi senza voltare le spalle. Una città che è europea e globale, fatta di tanti quartieri, ciascuno con la propria identità. Una città che vuole continuare a essere la capitale dei diritti e della costruzione di una nuova cultura della cittadinanza”, com’è quella che descrive il comitato promotore di questa primavera milanese dell’integrazione.

Il comitato civico che promuove “Insieme senza Muri”.

Se è vero che queste parole sono di fatto inscritte nel nostro Dna, “Insieme senza muri” serve in primis a coloro che, per paura, assuefazione agli schemi di una realtà che non esiste più, finanche difficoltà a sentirsi a loro volta inclusi, faticano a riconoscersi in questa storia, consentendo loro per così dire di “mettersi in pari”, ascoltando il racconto che hanno costruito tutte le associazioni e realtà che hanno proposto iniziative. Questa generazione dal basso del palinsesto è davvero la cosa più impressionante, perché si esplica in momenti diversissimi, dalle mostre di fotografia alle performance, dai dibattiti alle feste, coinvolgendo anche i più giovani, grazie a “Scuole senza muri”, un progetto che è attivo tutto l’anno, e che nel prossimo mese darà luogo a interventi presso gli istituti scolastici milanesi e dell’hinterland, primari e secondari, grazie alla collaborazione di scrittori, associazioni, realtà che si occupano di temi come la diversità, la multiculturalità, la valorizzazione delle differenze.

La presentazione del programma di “Insieme senza Muri”.

Il punto probabilmente più avanzato del lavoro sul sociale che amministrazione milanese e realtà del terzo settore hanno posto in essere sul tema dell’accoglienza è in questo momento Casa Chiaravalle, il bene confiscato alla mafia più grande della Lombardia che ospiterà donne, straniere e italiane, in uscita da percorsi di contrasto alla violenza o che vivono un disagio abitativo per cercare di dare loro una vita migliore di quella che hanno vissuto fino ad ora. Un luogo che nasce anche per essere un collettore di attività aperto anche alla cittadinanza, affidate alla gestione di una rete d’imprese sociali che operano a Milano sotto l’egida di Passepartout, così come di altre associazioni no profit, che garantiranno un percorso collettivo e individuale di crescita ed emancipazione professionale e sociale per gli ospiti. È dunque particolarmente significativo che il momento iniziale di “Insieme senza muri” sia proprio l’apertura di questa realtà, domenica 20 maggio, con un pomeriggio di festa che culminerà con un concerto inserito nel palinsesto di Piano City.

https://www.facebook.com/casachiaravalle/videos/803352089874457/

L’evento che il 23 giugno concluderà il mese di attività di “Insieme senza muri” si chiama invece “Ricetta Milano”, ed è di fatto un invito a tutta la cittadinanza, di nascita o di adozione, a cucinare e condividere un piatto della propria infanzia. Un ruolo importante ma non esclusivo lo giocheranno le comunità straniere. Social street, studenti Erasmus, centri di accoglienza, aggregazioni più o meno informali di milanesi che si riconosco in quest’invito alla condivisione di identità, cultura e tradizioni e in quest’apertura fortemente simbolica a meltin’ pot e mixité, sono chiamati a partecipare alla tessitura di questo formidabile arazzo metropolitano, che secondo le stime dovrebbe snodarsi per più di due chilometri. Emanuela Vita di Kamba, che è l’organizzazione chiamata a gestire questo momento, spiega che “le geografie dei partecipanti e le ricette dei piatti tesseranno la trama per una narrazione di Milano come città dall’identità permeabile, che riflette su se stessa e celebra il proprio carattere”.

Il bardo armeno Daniel Varujan, ucciso nel genocidio del 1915 all’età di trentun anni mentre marciava in una colonna di prigionieri che i turchi stavano conducendo in cima all’Ararat, ci ha lasciato uno scritto, intitolato “Il canto del pane”, e riportato sui fogli che conservava nella tasca del cappotto al momento della sua morte. In una di quelle pagine c’era scritto:

Passano i venti-sotto le spighe, la dove la luna ha fatto sprizzare il latte della sua anfora, tremano i chicchi. Dall’aia al paese, dal paese al mulino passa il mare. E quando le spose impastano il buon pane sia quello il canto dell’amore.

Il pane, come ricordava l’intellettuale bosniaco Predrag Matvejevic, “è più antico della scrittura e del libro. Viene dal grano: le prime specie di cereali di cui abbiamo notizia “comparvero nel Corno d’Africa, tra il Mare Grande e il Mare delle Canne, a poca distanza da Axum, dall’Asmara, da Addis Abeba. Sugli altopiani dell’Etiopia e dell’Eritrea, dove finisce il deserto, il clima diventa più mite, la terra si fa più umida”, scrive Matvejevic.

Il nostro pane è il loro.

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