Macroeconomia
Il terzo pilastro: il ritorno delle comunità inclusive
In tempi quanto mai confusi, nel bel mezzo di una crisi di governo dall’esito incerto assai, e in un orizzonte politico da perenne stato emergenziale, ho trascorso l’estate a leggere un libro denso e, lo dico subito, consigliato, anche se il giudizio che ho su di esso è ambivalente come, ahimè, le idee che mi sono rimaste (come briciole) sulla politica, nostrana e non.
Il terzo pilastro (Egea editore), di Raghuram Rajan, è un mattone.
Lo si dica senza timore e con valorizzazione del sostantivo edile.
È un mattone di 504 pagine, di non agevole ma sempre interessante lettura, ed è un mattone che pesa per il tema trattato: il ruolo, che dovrebbe aumentare auspicabilmente, delle comunità nel riequilibrare il rapporto tra economia e società.
Di questo libro, sempre qui, è stato pubblicato un estratto.
La tesi di Rajan è semplice: nel rapportarsi dell’individuo con la società e le istituzioni che crea, sono tre i pilastri fondamentali.
Stato, mercato e comunità.
L’avanzamento dell’umana civiltà dipende dall’equilibrio delle tre forze: ogni asimmetria genera conflitto, quando a favore dello stato e quando del mercato, e spetta sempre alle comunità fare da livella e portare il baricentro verso un nuovo equilibrio.
Il terzo pilastro è un libro ottimista (beato lui): al di là dei problemi gravi che attanagliano l’umanità (dalla sfida ambientale, alla sperequazione sociale fino all’ondata dei populismi), lo sguardo dell’autore è di quelli che sperano.
E qui comincio col dissociarmi: sia nel leggere il libro, sia nello sfogliare l’attualità esplosiva di queste settimane alla ricerca di una visione di futuro, mi sono raramente sentito POSITIVO o, per essere più preciso, illuminato da un’idea concreta e netta.
Il terzo pilastro, per me, è stato più un turno in garitta dalle mura della Fortezza Bastiani con l’ansia crescente di un nemico alle porte, che mai si manifesta e che pure, con certezza, avrà la meglio su di me.
Di questo chiedo scusa, ma sono intellettualmente esausto.
Chi è, comunque, Rajan?
L’autore che promuove il ruolo delle comunità contro lo stra-potere di autoritarismi e mercato sregolato è:
– Professore di economia all’università di Chicago (tempio del pensiero più ortodosso e liberista)
– Ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale (come sopra)
– Ex banchiere centrale dell’India (non si può dire che l’uomo manchi di iniziativa)
Insomma, abbiamo a che fare con un cavallo di Troia che porta le idee rinfrescanti dell’innovazione sociale dentro un quadro teorico tradizionale e che necessita di svecchiamento e nuove proposte?
O, viceversa, di un grande sostenitore del mercato che, di fatto, annacqua (sia scritto con dignità) le idee del liberalismo di mercato per renderle accette e digeste ai crapuloni che soffiano sui venti del nazionalismo populista?
In realtà, a me pare che sia più la seconda che ho detto.
Per capirci, questo libro non credo possa scaldare il cuore alla Ocasio Cortez o a Greta Thunberg.
Ma di che parla?
In 500 pagine, questo saggio prima di tutto è un brillante e documentato trattato di storia economica.
La prima parte, infatti, ripercorre la storia umana dal Medioevo a oggi per descrivere come ora le forze del mercato ora l’emergere di stati nazionali prepotenti abbiano soverchiato l’equilibrio sociale, determinando sommovimenti che, di volta in volta, sono stati riassorbiti da comunità tornate protagoniste del vivere civile.
Rajan vede, appunto con ottimismo incrollabile, la storia quasi come un video-gioco che, di livello in livello, migliora qualità della vita e dei diritti dell’individuo, aumentando le dotazioni di base e le speranze di una società la cui benzina è lo sviluppo tecnologico.
Arrivati all’inizio del ventunesimo secolo, e di fronte al diffondersi di spinte neo-nazionaliste in tutto il mondo, Rajan poi fa le sue denunce:
– alla disuguglianza crescente di un mercato globale che premia le super-competenze, genera una marea di lavoretti a bassissima qualifica (gig o neo-schiavitù, fate voi) ma penalizza e spiazza tutta una mole di ex- ceto medio-basso che si è vista togliere di colpo un lavoro, una rappresentanza politica e un’identità sociale
– all’elitarismo di istituzioni sovranazionali che, pur animate da buoni propositi, hanno calato dall’alto architetture fragili e quanto mai non condivise dalla base (esempio: Unione Europea)
– alla mancanza di coraggio di politici che, cavalcando le promesse dell’automazione, non si premurano tuttavia di offrire soluzioni a lungo termine per chi, nel processo della distruzione creatrice, si ferma allo step 1 (quello che distrugge, insomma)
Rajan fa una descrizione bellissima di quel meccanismo assolutamente naturale attraverso cui è, per paradosso, l’avanzamento dei diritti sociali a determinare uno dei mali dell’età odierna: la separazione residenziale.
In una comunità, per intenderci, senza più restrizioni o discriminazioni verso gli individui, sono i migliori tra essi a cercare maggior fortuna.
E lo fanno, dunque, spostando sé e la propria famiglia nei quartieri dove ci sono le migliori scuole, quelle frequentate da altri studenti che provengono da famiglie agiate, in cui l’apprendimento è fluido e le opportunità, che sono sì pari per tutti in partenza, diventano comunque migliori e più numerose di chi vive in periferia, per una banale esternalità positiva da spill over sociale (contagio salutare).
La separazione residenziale e, conseguentemente, delle vite che ci allontanano gli uni dagli altri: il grande male della società americana eppure così vicino a noi se pensiamo, per esempio, alla Milano fuori dai bastioni o alla separazione città/provincia.
È su questo terreno, è già stato detto e scritto più volte, che si combatte e si vince, possibilmente, la sfida di un’amministrazione progressista.
Ecco, la mia delusione da vedetta dei Tartari si è fatta però più accesa proprio nell’ultima parte del libro, quella gravida delle aspettative di un lettore in cerca di risposte.
Laddove, infatti, Rajan si dedica alla pars construens, quella in cui dovrebbe indicare COME rigenerare le comunità e riequilibrare, dunque, gli effetti nefasti di una globalizzazione ingiusta e di spinte autoritarie o anti-sistema degli stati, si rimane un po’ a bocca asciutta.
Dentro la ricetta altisonante di localismo inclusivo, infatti, sembra come che Rajan voglia dire: bisogna assolutamente riconoscere alcune istanze dei cosiddetti populismi.
Farle nostre, insomma, con coraggio e ardore.
O paraculaggine, a seconda dei punti di vista.
E infatti Rajan non lo dice.
Così come non dice, lasciando al lettore l’onere di unire i puntini, che bisognerebbe spingere sul ruolo della legislazione antri-trust e della politica nel bloccare il feroce sviluppo dei giganti hi-tech, evitando così il sorgere di nuovi monopoli.
Il libro si chiude e l’esperienza del lettore pure, in un angolo della fortezza Bastiani dove si ha la sensazione di avere avuto tra le mani l’intuizione giusta ma di non averla acchiappata.
E il regno del Nord incombe.
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