Società
Il ritorno delle classi sociali
Le classi sociali sono un retaggio del Novecento. Errato. La suddivisione in classi per la popolazione europea è attuale e alimentata da disuguaglianze e polarizzazione. Lo sostengono due sociologi francesi, Alexis Spire (EHESS and CNRS), Etienne Penissat e Cédric Hugrée, CNRS, Centro di ricerche sociologiche e politiche), autori del libro “Les classes sociales en Europe – Tableau des nouvelles inégalités sur le vieux continent”.
In una giornata in cui a Bruxelles tutte le attenzioni sono concentrate sul totonomi per i posti chiave nelle istituzioni europee, dalla Commissione alla BCE, passando per il Consiglio e la presidenza del Parlamento europeo, 60 coraggiosi sono riusciti a passare i controlli di sicurezza e accedere al Club de la Presse de Bruxelles per un evento organizzato congiuntamente dalla Fondazione per gli Studi Progressisti Europei (FEPS) e da Solidar, il network europeo delle organizzazioni della società civile per la giustizia e il progresso sociale.
L’evento “Inequality 2020” è stato l’occasione per riflettere su come le crescenti diseguaglianze hanno modellato la società europea negli ultimi anni e pensare alla prossima agenda per contrastare l’esclusione sociale, la disoccupazione e la disuguaglianza in generale.
SUDDIVISIONE DI CLASSE, MAI TANTO ATTUALE
Lo studio di Spire, Penissat e Hugrée da cui è partita la discussione, attinge a piene mani da fonti ufficiali e dati raccolti dall’Unione europea quali l’EU-SILC – la statistica sul reddito e le condizioni di vita nell’Ue, l’indagine sulla forza lavoro, quella sui livelli di istruzione degli adulti e l’indagine europea sulle condizioni di lavoro. La principale novità è probabilmente l’uso della nuova classificazione socioprofessionale (Gruppo europeo socio-economico ESEG) introdotta da Eurostat nel 2016. Ciò consente un’identificazione della classe sociale piuttosto accurata basata sul lavoro: classe lavoratrice, classe media, classe superiore.
Secondo la ricerca in media in Europa:
· le classi popolari rappresentano un 43 per cento della popolazione, si tratta particolarmente di impiegati non qualificati e lavoratori manuali, operai specializzati, operatori per l’infanzia, assistenti domiciliari, artigiani e agricoltori.
· La classe media rappresenta invece circa il 38 per cento della popolazione e comprende commercianti, impiegati qualificati, professionisti associati come ingegneri informatici e tecnici, professionisti associati alla salute (ad esempio infermieri), professionisti e insegnanti associati alle vendite e all’amministrazione.
· La classe agiata invece conta il 19 per cento della popolazione e include la maggior parte delle professioni intellettuali e scientifiche come medici, dirigenti dell’amministrazione, finanza e affari, avvocati, giudici, giornalisti, artisti e, naturalmente, gli amministratori delegati e i dirigenti d’impresa.
L’immagine sopra, presa dal libro di Spire, Penissat e Hugrée, mostra che in tutti i paesi mediterranei e dell’est europeo la percentuale delle classi popolari è sopra la media europea, mentre nell’Europa continentale e del nord la fetta di popolazione ‘disagiata’ o popolare è più bassa.
La ricerca ha reso chiaro che la crisi e la recessione economica non hanno un impatto identico su tutta la popolazione. Le classi popolari soffrono di più. Per esempio, l’incidenza della disoccupazione in Europa, negli anni più bui della crisi è stata del 3 per cento per i managers e le professioni scientifico-intellettuali mentre è salita rispettivamente all’11 e 14 per cento per gli operai specializzati e non specializzati.
ALTRI STUDI CONFERMANO LA TENDENZA
Altri studi promossi dalla FEPS evidenziano che soltanto le disuguaglianze legate alla salute comportano un costo molto elevato per la nostra società, si tratta di circa 980 miliardi di euro l’anno, circa 9,4 per cento del PIL europeo, al quale rinunciamo per colpa di una più bassa produttività dovuta alla salute precaria dei lavoratori e allo scarso accesso a servizi di qualità. Alexander Kentikelensis dell’Università Bocconi di Milano e gli altri autori del report “Health Inequalities in Europe” hanno mostrato come un aumento della salute della metà più bassa della popolazione europea migliorerebbe la produttività del lavoro dell’1,4 per cento del PIL ogni anno. Basterebbe questo intervento per far crescere il prodotto interno lordo europeo del 7 per cento in cinque anni.
Lo studio “Cherishing All Equally 2019” fa il punto sulle disuguaglianze economiche dimostrando la gravità la situazione in Europa e in Italia. La percentuale di persone a rischio di povertà è andata progressivamente aumentando (vedi grafico sotto) nel decennio 2006-2016, con un rischio ancora più elevato per bambini e donne.
I punti nodali del rapporto sono:
1) I paesi con un reddito medio alto o medio variano notevolmente il modo in cui lo distribuiscono. L’Europa ha una distribuzione del reddito significativamente più equa rispetto ad altre regioni globali.
2) Fatta eccezione per alcuni casi estremi, la disuguaglianza lascia relativamente inalterate le classi “amministrative” nel mezzo della distribuzione (decili medio-alti della distribuzione del reddito dal 40 al 90 per cento). La sua gravità riflette principalmente la lotta distributiva tra le classi “produttive” di capitale, dirigenti e professionisti altamente retribuiti e lavoro. Quindi la disuguaglianza influisce maggiormente sulle classi inferiori (ovvero il primo 40 per cento della distribuzione del reddito).
3) La disuguaglianza di mercato, cioè prima dell’intervento dello stato, in Europa non è così dissimile dal modello globale. In effetti, la sua ascesa nell’era neo-liberale ha significato che gli stati europei hanno dovuto fare uno sforzo fiscale sempre maggiore per impedirne l’aumento e hanno dovuto affrontare di conseguenza un crescente debito pubblico.
4) La ricerca sulla disuguaglianza tende a concentrarsi sul reddito piuttosto che sulla ricchezza, in parte perché i dati sul reddito sono più facili da ottenere. Tuttavia, in Europa, le disuguaglianze di ricchezza sono spesso superiori alle disparità di reddito, un fenomeno che è cresciuto negli ultimi anni. In realtà, questa divergenza è comune in tutta l’UE.
5) Essendo il più importante asset di classe, la proprietà è fondamentale per la generazione di disuguaglianze di ricchezza.
6) Le famiglie più abbienti non hanno solo più ricchezza ma anche portafogli più diversificati, comprese le attività finanziarie. Le famiglie meno abbienti sono meno propense a possedere la propria casa, ma per coloro che lo fanno, la proprietà dell’abitazione include la maggior parte dei loro beni.
7) La dipendenza dei proprietari di case meno abbienti sui prezzi delle abitazioni stabili li rende più vulnerabili in caso di crisi, quando i prezzi diminuiscono. E mentre i meno abbienti tendono a detenere meno debiti dei ricchi, il loro debito è più elevato in proporzione al loro patrimonio ed è più probabile che non sia garantito.
8) Le disuguaglianze di ricchezza sono fortemente influenzate da diversi livelli di istruzione e genere.
9) Le disparità di ricchezza crescono tra il 2010 e il 2014 in tutta l’Europa.
IL RUOLO DELL’UE E DELLA POLITICA
L’Unione Europea non ha mai avuto un focus specifico per contrastare le disuguaglianze, soltanto l’anno scorso un report del Parlamento europeo (Javi Lopez, PSOE) ha provato a mettere la questione al centro della politica continentale ricordando il forte supporto scientifico che evidenzia il legame tra disuguaglianze e crescita. Una società più inclusiva e più equa offre maggiori possibilità di sviluppo economico.
Il piano di contrasto alla povertà varato nel decennio scorso dall’Unione europea, denominato strategia Europa 2020, si è perso tra le emergenze della crisi economica e la scarsa volontà di una Commissione a guida conservatrice. La scelta di prediligere politiche di rigore e l’attenzione alle questioni macroeconomiche invece che a quelle sociali hanno determinato l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo fissato di ridurre di 20 milioni il numero di persone a rischio di povertà entro l’anno prossimo.
«La nuova politica della disuguaglianza al livello Europeo dovrebbe muoversi su tre fronti», sostiene Lorenza Antonucci, esperta di disuguaglianze e politiche sociali dell’Università di Birmingham, intervenuta all’evento. «Primo, rivedere l’asservimento dei target sociali europei agli obiettivi economici. Un esempio lampante sono le conseguenze negative sui giovani del taglio al welfare state dopo il 2008 per ragioni di bilancio. Secondo, considerare gli effetti dell’insicurezza socio-economica all’interno della maggioranza della popolazione e non solo in una minoranza povera da re-integrare (come durante l’Agenda di Lisbona). Più che 99 per cento contro 1 per cento, in Europa abbiamo una situazione 75 per cento (ceto povero e medio in declino) contro un 25 per cento di benestanti che ha aumentato la sua posizione post-2008. Terzo, affrontare la disuguaglianza crescente tra i paesi del centro – o paesi ‘core’, ossia Germania, Francia, paesi del Nord – e i paesi della periferia (Est e Sud d’Europa). Le migrazione intra-EU successive alla crisi del 2008 riflettono l’impoverimento della periferia nel confronti del core dell’Europa».
Chiunque sarà scelto a guidare le principali istituzioni europee, si troverà davanti una situazione ‘sociale’ non facile. La speranza è che ci possa essere una lungimiranza politica tale da riuscire a capire che la tenuta e l’inclusività della nostra società sono pre-requisiti per stabilità politica e sviluppo economico.
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