Scienze

Il lavoro nel sociale deve essere pagato

5 Maggio 2017

Se non sapete qual è la differenza tra Onlus, Ong e associazioni di volontariato, ma commentate su Facebook, twittate o anche solo tenete banco davanti ad una birra con amici sul lavoro di educatori, mediatori culturali, responsabili di comunità o qualsiasi altra figura professionale legata al sociale, allora avete un problema. Un problema che ha un nome: ignoranza. Nel senso che “ignorate” (Aldo Giovanni e Giacomo insegnano) una serie di questioni e probabilmente un manuale di diritto privato fa al caso vostro.

Ora al di là delle descrizioni giuridiche su ciò che è volontariato e cosa no, il tema rilevante da porre è: perché associamo alla figura professionale che lavora nel sociale, cioè che fa del bene, solo e unicamente quella del volontario (chi, per varie motivazioni, decide di prestare gratuitamente il proprio tempo per fare del bene)?

Il volontariato, ancorché svolto in modo totalmente spontaneo e genuino, quindi spesso fatto da persone non competenti e non qualificate, è una risorsa inestimabile per il nostro paese. Molto spesso, anzi, sostituiscono le mancanze del welfare state che non riesce a sostenere i costi delle gestione diretta dei servizi. La maggior parte delle volte, come anticipato, il volontariato è fatto da persone che non sono formate e non sono guidate da figure esperte e competenti. E questo è un problema, perché non basta la buona volontà o l’essere brave persone per lavorare nel sociale. Esistono corsi universitari, tirocini e formazione permanente e, probabilmente, non è nemmeno sufficiente tutto questo.

In Italia siamo stati abituati a pensare che chi si occupa di sociale deve farlo gratuitamente, senza essere pagato, altrimenti non va bene, non è sincero, anzi è ipocrisia. Il ragionamento è: ma come, fai del bene e vuoi pure essere pagato?

Il problema sta proprio lì. Chi fa l’educatore, il mediatore culturale o l’assistente sociale non è che fa del bene perché è una brava persona. Lo fa perché è un lavoro. Esattamente come un medico cura le persone, un insegnante forma le future generazioni o una badante si occupa degli anziani. Eppure nessuno si sognerebbe di mettere in discussione il fatto che questi mestieri debbano essere pagati. Poi è naturale che per fare alcuni mestieri ci vuole la “vocazione” e la passione, molto più che per altri, ma è una questione personale, di scelte individuali che non possono essere giudicate da terzi, in alcun modo.

Immaginiamo per un attimo che tutte le attività che hanno a che fare con il sociale vengano svolte solo e unicamente da volontari. Immaginate le comunità gestite solo e unicamente da persone che non hanno alcun genere di preparazione e di professionalità. Attenzione, se siete leghisti invasati, pensate non alle comunità per i migranti o minori non accompagnati, ma a quelle per i minori italianissimi in difficoltà o con problemi psichiatrici, di droga o con abusi alle spalle, se questo può aiutare a scalfire la vostra insensibilità. Per non parlare di tutte le attività per i disabili e gli anziani non autosufficienti.

Ecco, è inimmaginabile, perché lo Stato non ha la possibilità di farsi carico di tutti i costi e non ci sono abbastanza persone che, gratuitamente, possono permettersi di impiegare il proprio tempo libero per queste attività. E, anche se ci fossero, non sarebbero comunque qualificate per farlo. Sarebbe come prendere una persona per strada a cui piace stare a contatto con le persone giovani e sbatterlo in un aula di scuola ad insegnare latino o matematica. Così, senza alcuna preparazione, senza alcuna nozione di pedagogia e senza figure di riferimento o tutor di supporto. E non prendo in considerazione le professioni sanitarie solo per carità di patria.

Quindi, la soluzione è quella di prendere persone che vogliono dedicarsi a questo genere di attività, formarle, farle studiare e metterle a fare il proprio lavoro. E dato che mi hanno sempre detto che il lavoro va pagato, queste persone vanno pagate per il lavoro che fanno, e hanno diritto ad avere contratti dignitosi, degni di questo nome. Perché il tema del sociale non c’entra nulla con il fare del bene. Quella è solo una conseguenza dell’attività lavorativa che uno sceglie. Si può fare business nel sociale? Sì, anzi, esistono vere e proprie imprese sociali che seguono logiche di mercato e questo non ha nulla a che vedere con la cosiddetta charity ma è una vera e propria azienda che ha bilanci e utili. Fatto salvo il valore del volontariato, dato che ormai lo Stato delega una serie di servizi al privato sociale, bisognerebbe per lo meno aprire il dibattito su questo argomento, cercando di capire che modello di welfare vogliamo perseguire. Rimanere in una situazione ibrida e opaca non rende un buon servizio né agli utenti, né a chi ci lavora, né alle giuste e legittime necessità di trasparenza.

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