Giustizia
“Il diritto di opporsi” è un’occasione per riflettere sulla pena di morte
E’ passato forse un po’ inosservato in Italia, tra ToloTolo e 1917, questo “Diritto di opporsi” film diretto dal regista Destin Daniel Cretton e interpretato, tra gli altri, da Jamie Foxx.
Eppure, non è Foxx il protagonista. Se questi nel film interpreta Walter McMillian, uomo condannato a morte per l’omicidio di una ragazza 18enne in Alabama, la scena è tutta per Michael B. Jordan che nello schermo veste i panni di Bryan Stevenson, giovane avvocato laureato ad Harvard.
La storia è ambientata nell’Alabama degli anni ’90 (attenzione, non ’50, non ’60) e racconta tutte le ingiustizie e le incongruenze di un sistema giudiziario che, in Alabama come in altri stati del Sud degli States, vive ancora in maniera forte e determinante le pressioni ed i pregiudizi della comunità bianca verso quella nera degli afroamericani. Pressioni di non poco conto tanto che, come il film ben rappresenta, spesso portano ad arbitrarie condanne e a riti sommari dove con una spaventosa ripetizione nel tempo vengono negate le garanzie di difesa e tutela da chi è già stato considerato “colpevole” dalla comunità cittadina a prescindere da indagini e rilievi.
Potrebbe sembrare questo un film come altri che inscena una storia verosimile per far passare un messaggio. Non che ci sia nulla di male in questo ma Il diritto di opporsi (che in inglese è Just Mercy) è molto di più. E’ una storia vera.
Avere il mondo contro
Durante tutte le poco più di due ore di proiezione, quello che emerge è uno spaccato di vita reale dalle tinte drammatiche.
Le scene si alternano tra l’omertà ed il pregiudizio della comunità cittadina, sorda e trincerata nelle sue convinzioni (“che McMillian sia colpevole lo si vede dalla faccia” dice il procuratore distrettuale Tommy Chapman, proprio colui che avrebbe invece la possibilità di accogliere le istanze di Stevenson e riaprire il caso), e la struggente drammaticità di coloro che, nel braccio della morte, scontano le proprie giornate di reclusione in attesa dell’esecuzione.
Poche possibilità di appello, nessuna di evitare la pena. “Nessuno è mai uscito vivo dal braccio della morte di questa prigione. Cosa le fa credere che io sarò il primo?” Questa la domanda di Walter McMillian a Bryan Stevenson, il giovane avvocato che gli sta proponendo di riaprire il caso viste le innumerevoli incongruenze nei capi di accusa e nell’affidabilità delle testimonianze.
In effetti, protagonista non dichiarato del film è il senso di impotenza che è naturale conseguenza di una situazione al di là del reale. Perquisizioni arbitrarie e invasive, umiliazioni, bugie e ostruzioni (non solo da parte dei cittadini ma anche da parte delle istituzioni) fanno da cornice ad una storia che sembra incardinata nel racconto deciso dai cittadini e destinato a non essere rivisto.
E tutto questo, ovviamente, non bisogna dimenticare che avviene nel contesto di una corsa contro il tempo. Quella per evitare la morte di McMillian.
L’esecuzione di Herb mostra la crudeltà della pena di morte
Chi è Herbert Richardson? Sarebbe più corretto dire chi era.
Herb era vicino di cella di McMillian in quegli anni ’90, condannato a morte sulla sedia elettrica per l’uccisione di una donna a seguito del piazzamento di un ordigno.
Lungi dal giustificare il suo atto non si può non ravvisare una grande sproporzione tra azione e reazione. Cioè tra reato e condanna.
Al di là del non capacitarsi come la pena di morte possa essere ancora considerata una giusta pena in uno stato occidentale del XXI’ secolo, è bene vedere un attimo cosa portò Herb nel braccio della morte.
Quella di Herbert Richardson è una storia triste. Soldato impegnato in Vietnam per gli U.S. corps, Herbert è l’unico sopravvissuto di un agguato che uccide tutti i suoi commilitoni e che lo vede come unico sopravvissuto. Congedato dal servizio militare, la sua è la storia di un tipico c.d. scemo di guerra, ossia un ex militare che, una volta tornato alla vita comune, non riesce più a lasciarsi alle spalle un dramma, quello dei combattimenti appunto, in grado di perseguitarlo e logorarlo. E infine farlo impazzire.
Ecco perché Herb riceve nel corso della sua vita varie denunce per disturbo della quiete pubblica (il film racconta attraverso le sue parole di come più di una volta fosse corso per il quartiere urlando ai vicini di ripararsi dai vietcong). Ed ecco il perché della bomba, che Herbert si pentirà più volte di aver piazzato e che, per sua ammissione, avrebbe dovuto essere solo per spaventare e non per uccidere.
Ritornando alla pena di morte: può essere una soluzione? Decisamente no. Ragionando però purtroppo con uno Stato, l’Alabama, che ancora la pratica, bisogna chiedersi: era, nel caso di Herbert, la soluzione migliore? Viene spontaneo rispondersi che molto più probabilmente delle cure psichiatriche ed una sorveglianza costante sarebbero state misure molto più efficaci ed umane. Sarebbero potute essere, appunto, ma non ci si è posti il problema.
Gli Stati Uniti sono l’unico paese occidentale che ancora oggi applica la pena di morte
Certo non in tutti i 50 Stati (in 29 sì). Certo il dibattito è aperto e alcuni stati pur non avendola abolita sono in moratoria (cioè non la applicano). Ma la pena c’è e si è tradotta nel tempo nelle forme più varie.
Iniezione letale, fucilazione, sedia elettrica, impiccagione e sì, anche la camera a gas.
Non bastasse la barbarie di questa pena, non bastasse la crudeltà di questi metodi (anche se in alcuni Stati il condannato può scegliere come essere ucciso. Tante grazie), drammatica è la statistica relativa agli innocenti condannati dallo Stato in questi anni. Lo riporta anche il film nei titoli di coda.
1 persona su 9. Un innocente ogni nove condannati.
Un professore della University of Michigan, Samuel Gross, ha analizzato quasi 7500 condanne a morte inflitte tra il 1973 ed il 2004 (un periodo di tempo comunque estremamente limitato). Quanti di questi erano innocenti? Il 4%, cioè 340 persone. Trecentoquaranta persone.
Quanti sono stati scagionati? Solo 144.
Le conclusioni si traggono da sole.
Il tema della pena di morte in vista delle Presidenziali 2020
Dopo anni di amministrazione Obama che aveva di fatto, ma non di diritto, abolito la pena di morte (era infatti stata prevista una sospensione delle esecuzioni), con il governo Trump si è interrotto il periodo di moratoria. E le esecuzioni sono ricominciate.
Il tema è tuttavia diventato oggetto di dibattito e ha trovato il netto schieramento da parte dei candidati democratici Sanders, Warren ed Harris.
Se Bernie Sanders, da sempre famoso per le sue posizioni a favore dei diritti del cittadino, promette che abolirà la pena di morte qualora diventasse presidente, Elizabeth Warren e Kamala Harris pongono l’accento sugli errori giudiziari non estranei all’ordinamento americano (ma a qualsiasi ordinamento legislativo in realtà), sottolineando come questi, in contesti di Stati che applicano la pena di morte, siano un rischio intollerabile ed insostenibile per tutti.
E’ un bene che finalmente almeno uno schieramento politico, in questo caso il centro-sinistra, prenda una posizione netta a favore dell’abolizione e del superamento della pena di morte. Farà presa nell’elettorato? I sondaggi sull’opinione pubblica riguardo a questo tema in realtà vedono un consistente 56% di cittadini favorevole alla pena capitale in caso di omicidio, a fronte di un modesto 41% contrario.
Tutto quello che rimane è quindi sperare che, a prescindere dall’esito delle presidenziali di quest’anno, un serio e prolungato dibattito sul tema porti le persone ad informarsi, ad approfondire il tema e, forse un giorno, a superare definitivamente quello che è a tutti gli effetti un omicidio di Stato.
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