Società

il Daspo sotto al tappeto

19 Aprile 2019

Il Daspo urbano, introdotto da Minniti e rilanciato da Salvini, sposta i problemi della marginalità sociale fuori dai centri urbani e li scarica sulle periferie, generando un circolo vizioso di indifferenza che preclude ogni possibilità di riscatto. 

Come tutte le città, anche la mia deve fare i conti con la presenza, non sempre discreta, di una popolazione di emarginati: senzatetto e accattoni, alcolisti e tossicodipendenti, ambulanti irregolari e posteggiatori abusivi, ladruncoli e spacciatori. Queste persone, che tendono a frequentare i luoghi più centrali e affollati per esercitare le loro attività, ultimamente si incontrano di rado: purtroppo ciò non è dovuto alla loro reintegrazione nella società, ma piuttosto al loro allontanamento a norma di legge.

Nel febbraio del 2017, l’allora ministro Minniti istituì con un decreto il cosiddetto DASPO urbano (l’acronimo si riferisce alla misura di divieto di accesso alle manifestazioni sportive, introdotta nel 1989 per contrastare i fenomeni di violenza negli stadi). In base a questa normativa (1), la polizia locale può multare e allontanare (per 48 ore e, in caso di recidiva, per un periodo da sei mesi a due anni) i disturbatori del decoro urbano da stazioni, porti e aeroporti: può trattarsi di mendicanti, clochard, ubriachi, venditori o parcheggiatori abusivi, pusher e prostitute; in accordo col prefetto, il sindaco può estendere il provvedimento alle aree verdi pubbliche e a quelle frequentate da studenti e da turisti.

Tra i primi a recepire la novità legislativa ci fu proprio il mio Comune, che scelse di applicarla in tutto il centro storico, nei parchi cittadini e nelle vie dello shopping (fece scalpore, all’epoca, la prima multa a un senzatetto; l’esempio fu poi seguito da altre città, come Bologna). Da allora, la pratica di multare e allontanare gli indesiderati dai quartieri bene è diventata normale; recentemente, la città di Firenze si è segnalata per un’ulteriore evoluzione, cioè la creazione di un’estesa zona rossa nella quale l’accesso è vietato preventivamente a chi è stato denunciato per spaccio, commercio abusivo, danneggiamento o reati contro la persona: la misura è valida in via sperimentale per tre mesi, ma il divieto di accesso non prevede limiti temporali. L’idea è talmente piaciuta al ministro dell’Interno che pochi giorni fa, al grido di “via i balordi dalle città“, ha emanato una direttiva per invitare i prefetti di tutta Italia a seguire l’esempio di Firenze, sostituendosi ai sindaci distratti che non vi avessero ancora provveduto.

Come tutte le misure repressive che colpiscono persone a vario titolo sgradite, il Daspo urbano ha riscosso un successo vasto e trasversale: non è un caso che sia stato ideato da un ministro del Pd, rilanciato dal leader della Lega e applicato da sindaci di tutti i colori politici. La logica, tuttavia, è ipocrita e perversa, perché gli indesiderabili vengono semplicemente indotti a spostarsi in aree diverse da quelle vietate: tipicamente nelle periferie, che già soffrono di molteplici criticità e sono afflitte da tensioni sociali sempre pronte ad esplodere. Le istituzioni cittadine mostrano insomma di non voler affrontare e risolvere i problemi, ma di volerli solo nascondere sotto al tappeto.

Non c’è allora da stupirsi se i residenti di un quartiere difficile si ribellano con violenza all’apertura di un nuovo centro di accoglienza per richiedenti asilo, o al trasferimento di un gruppo di famiglie Rom. Il rifiuto di farsi carico di un potenziale problema sociale e la richiesta di destinarlo altrove non sono frutto solo dell’esasperazione e del pregiudizio, ma anche dell’esempio negativo offerto dalle stesse autorità: se al sindaco è concesso liberarsi di un grattacapo scaricandolo su un sobborgo periferico, a maggior ragione sono giustificati a farlo i suoi residenti, che già affrontano quotidianamente mille ostacoli e disagi.

La strategia del Daspo urbano rientra pienamente nella dinamica di trasformazione che sta interessando moltissime città: essa prevede la valorizzazione del centro storico come attrattore turistico, la riqualificazione delle zone semi-centrali per la residenzialità di livello medio-alto e la ghettizzazione delle periferie come luoghi dell’indigenza e della marginalità. Questi ultimi fenomeni non sono più visti come sfide cui dedicare attenzione e risorse, ma solo come fastidi da sottrarre allo sguardo: lo sforzo di inclusione viene dunque sostituito dal suo contrario, cioè dall’indifferente perseguimento dell’ordine pubblico e tutt’al più da un atteggiamento di pietosa condiscendenza, concesso purchè chi ne è oggetto rimanga al suo posto. Gli abitanti delle periferie, vessati dalla trascuratezza delle istituzioni e addestrati dal loro esempio a spostare altrove i problemi, divengono incapaci di solidarietà e quindi di riscatto, in un circolo vizioso che può portare solo disastri: perché dove non c’è aiuto la rabbia e la frustrazione si accumulano, fino a esplodere.

Non c’è dubbio che, nell’immediato, la scomparsa dei mendicanti e degli abusivi dalle vie centrali delle città porta consenso ai sindaci e al ministro che li ha incoraggiati: ma il sollievo momentaneo è purtroppo foriero di problemi futuri molto più grandi. Dovremmo rifletterci seriamente e accettare di tenere i poveri e i disgraziati sotto il nostro sguardo: perché solo avendoli accanto eviteremo di dimenticarci di loro e troveremo il modo di aiutarli; solo con la loro presenza riusciremo, forse, a non smarrire la nostra umanità.

 

 

(1) Il decreto 14/2017, recante “disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città“, è noto col nome di decreto Minniti. Allo scopo di prevenire e contrastare l’insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all’abuso di alcool o all’uso di sostanze stupefacenti) ai sindaci, in accordo col prefetto, è consentito multare e imporre l’allontanamento per 48 ore (mini-Daspo) a chi pone in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico; la misura può essere estesa, mediante regolamenti di polizia urbana, a aree urbane su cui insistono plessi scolastici e sedi universitarie, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico. Su provvedimento del questore, il recidivo può essere colpito da un divieto di accesso alle aree di cui sopra per un periodo di 12 mesi (Daspo urbano); analogo divieto di accesso all’interno o in prossimità di locali pubblici, per un periodo da uno a cinque anni, può essere disposto, sempre dal questore, nei confronti di spacciatori condannati (almeno) in appello.

 

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